mercoledì 29 luglio 2015

Niente fiori per Valentina





Mariagrazia Scarnecchia:
Niente fiori per Valentina, un’opera di alto valore umano e letterario.
di Bonifacio Vincenzi


In Niente fiori per Valentina (Aljon Editrice), Mariagrazia Scarnecchia ci presenta nove ritratti di donne molto diverse tra loro ma uniti da un denominatore comune: l’essere donna. Lo stile della narrazione è nitido, elegante vissuto profondamente in una dimensione di intelligenza dove le età, gli stati d’animo delle varie protagoniste diventano anche specchio dell’attuale condizione femminile.

Prendiamo il primo racconto, Una storia banale, l’interesse per la vita nella protagonista ( una donna di mezza età) è come spento; ha una visione parziale delle cose e gli avvenimenti che le ruotano intorno hanno sempre connotazioni negative o tendenti alla negatività. Anche le notizie di cronaca che ascolta dal notiziario rientrano nella sua logica inconscia e di quella di  un sistema mondo alimentato costantemente dalla paura.

La seconda storia raccontata dalla Scarnecchia si intitola Bugiarda, ed è annunciata già nel primo racconto. In pratica è una notizia di cronaca ascoltata dalla protagonista e tratta di una verità che non si  vuole afferrare né inglobare. Una bambina di dodici anni è vittima di una violenza consumata all’interno della famiglia a cui, per non turbare certi equilibri, si preferisce non credere.
Man mano che si prosegue nella lettura di questi racconti ci si rende conto che le protagoniste siano press’a poco tutte impantanate in una realtà che soffrono e da cui vorrebbero sfuggire.

La struttura narrante produce un luogo di irraggiamento. Le riflessioni, gli echi, i vari stati d’animo, gli accadimenti sono funzionali a un clima che parte dalla realtà di chi scrive e condiziona inevitabilmente le varie e differenti estensioni narrative.
In questo intreccio sorprendente di vite è il nostro tempo che viene rappresentato, che è sempre più un vuoto senza fondo dove precipitano esistenze.



La Scarnecchia tesse la grande ragnatela che scorre sotto la narrazione. Ogni protagonista si danna nel suo personale labirinto. Le vie d’uscita ci sarebbero ma vengono perlopiù ignorate e ogni protagonista rimane intrappolata nella sua esistenza. Aggirare la verità è un esercizio che accomuna un po’ tutte. Bisognerebbe potersela dire forte e chiara la verità, metterla a fuoco nel pensiero. Invece, c’è un bisogno di rimanere nella sofferenza: è una condizione, questa, che si conosce bene, paradossalmente protettiva.

Nell’ultimo racconto, che poi dà il titolo al libro, Niente fiori per Valentina, ad un certo punto si legge:

Il tempo non si è fermato. E non si fermerà mai. La notte, con le sue immagini a volte colorate, a volte in bianco e nero, non è che un’illusione. Il giorno svela la realtà. Non si può tornare indietro.

No, non si può. In questa impossibilità anche “ le parole, spesso, separano più che non avvicinare; possono diventare gesti rituali. Come i fiori.”

Allora, niente fiori per Valentina.

Niente fiori per donne umiliate, usate, negate nella loro persona, costrette ad assomigliare ai modelli dell’immaginario maschile …

È un messaggio amaro che si coglie da questo libro di Mariagrazia Scarnecchia, sicuramente da leggere, sicuramente da vivere profondamente, perché, qui, poesia e ricerca psicologica, vicende e personaggi, si amalgamano perfettamente dando vita ad un’opera di alto valore umano e letterario.


martedì 28 luglio 2015

Cibus



Piera Mattei:
il cibo nell’arte della scrittura
di Bonifacio Vincenzi



Questo interessante libro di Piera Mattei, Cibus, (Gattomerlino) merita la nostra attenzione per almeno due motivi. Il primo perché è uno splendido esempio di arte letteraria: è, infatti, una dissertazione dotta sulla poesia del cibo  e della fitta trama  dei suoi significati simbolici. Il secondo, perché  la nascita di questo libro, a mio avviso, non può non essere legata, in qualche modo, al particolare effetto  Expo Milano 2015 e il suo tema dominante: nutrire il pianeta, energia per la vita.

Da qui, è inevitabile una breve riflessione su alcuni paradossi del nostro amato pianeta. Da una parte circa novecento milioni di persone patiscono la fame; dall’altra sono in vertiginoso aumento ogni anno  il numero di decessi per malattie legate al problema dell’obesità e del sovrappeso. A questo si aggiunga che ormai si comincia a parlare di miliardi di tonnellate di cibo sprecato ogni anno che buttiamo nei bidoni dell’immondizia, e  ce ne sarebbe già abbastanza per cominciare a veder traballare il nostro concetto di umanità.



Ma non è di questo che ci dobbiamo occupare. Il libro della Mattei parla di parole, della materia prima della scrittura. Parte dal vocabolario ed è già avvincente ciò che ne viene fuori…
“Cibo dal latino cibus. E qui ci fermiamo. Si tratta di una di quelle parole che definiremmo “prime”, come quei numeri che resistono a ogni ulteriore scomposizione. Nella sua neutralità non ammette sinonimi, perché alimento o nutrimento richiamano (come i verbi alo e nutrio da cui derivano) un atteggiamento affettivo tra madre e figlio, tra piccolo e grande, in tutto il mondo animale; poi anche da colto a ignorante, da giovane a saggio, nell’ambito esclusivamente umano e culturale. Cibo invece, nella sua valenza biologica e fisica insieme, è parola lontana da ogni commozione: definisce la materia organica che l’animale consuma per continuare il ciclo della vita. Cibo, se usato senza aggettivazione, è entità necessaria e potente, benché passiva nell’atto di essere consumata.”


Inoltrandoci più in là, la scrittura di Piera Mattei segue itinerari letterari soffermandosi spesso nell’epoca classica dove i riferimenti attinenti alla tavola sono davvero numerosi. Non mancano, infatti, richiami a Orazio, Petronio, Ovidio, tanto per citare solo alcuni nomi.
Ma c’è nel libro anche un intero capitolo dedicato ad una scrittrice più vicina ai nostri tempi: Dacia Maraini. Il capitolo si intitola “Eros e cibo nella poesia di Dacia Maraini” ed è un viaggio nella poesia, appunto, della Maraini che sicuramente è stata oscurata dalla forza espressiva e la notorietà dei suoi romanzi ma che, nell’ambito di questo approfondimento, spesso, nella sua poesia “ la cucina diventa metafora di rapporti che non conoscono o non sopportano la mediazione razionale.”



E, sempre seguendo questa scia della poesia del novecento, ad un certo punto Piera Mattei cita poeti come Clemente Rebora, soffermandosi, però, particolarmente, sulla poesia di Aldo Palazzeschi, dove il tema della cena  viene trattato con ironia e una certa dose di pazzia, “in un crescendo di disagio conviviale e gaffes surreali.”

Il libro della Mattei si conclude con il racconto “Pollo, il candido” che parla delle ossessive riflessioni di un pollo su una sconcertante affermazione di una elegante signora che dice di non mangiare nessun tipo di carne se non quella di pollo, di cui non riesce ad avere veramente pietà, ritenendolo stupido.

In verità la Mattei ha una particolare simpatia per questo uccello domestico avendogli dedicato ben tre capitoli del libro, lamentando il fatto che “ di tutti gli animali che diventano cibo dell’uomo (occidentale) il pollo è l’unico che, almeno fino ai tempi recenti, non è stato nobilitato in poesia.” Il motivo? C’è un solo modo per saperlo ed è quello di acquistare e leggere questo piacevolissimo libro di Piera Mattei.



Immagini in ordine di apparizione: copertina del libro, foto di Piera Mattei,  Alberto Sordi nella famosa scena di un film, foto di Dacia Maraini.

venerdì 24 luglio 2015

Germana Di Rago



Germana Di Rago:
il grande dono dell’arte per colorare la vita di ogni giorno
di Bonifacio Vincenzi


“Un paese – scriveva Cesare Pavese - vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.”
Ora c’è da chiedersi, considerando i tempi che stiamo vivendo,se ogni luogo del cuore, sia  ancora capace, di custodire traccia e memoria della nostra presenza, nel momento in cui il nostro vagare ci allontani, per una qualsiasi ragione, da questo angolo di terra che custodisce i nostri ricordi.
Sì, certamente è ancora capace di farlo. Ma lo può fare solo attraverso noi stessi. Noi siamo i custodi dei luoghi del cuore. Noi e nessun altro.

E Germana Di Rago ce lo dimostra nelle sue opere. Ci fa sentire il paese che, intendiamoci, non è quella serie di conflitti che caratterizzano gran parte dei quotidiani rapporti tra individui. È qualcosa di più. È la vita, è l’anima delle persone che riconosciamo ogni giorno, ma anche la vita e l’anima di coloro che sono passati e scomparsi per sempre.


Se guardate attentamente le opere di Germana quello che si percepisce è la sensazione di un Grande Silenzio, un silenzio quasi metafisico.
Nelle sue opere le case e i luoghi familiari sembrano acquietati, sembrano riposare in loro stessi. Riposare in questo Silenzio che ne preserva l’essenza e la distingue. Questo silenzio che ingloba il frenetico passaggio della presenza umana  soltanto nella sua assenza.
Da qui, comprendiamo perfettamente come il peso dell’assenza possa essere comunicato attraverso l’arte della pittura. E come il percorso creativo di Germana Di Rago, pur legandosi alla realtà, venga in un certo senso, avvolto dall’aura spirante da questi luoghi che nel loro insieme formano il paese Francavilla Marittima, quello ormai scomparso del passato, quello vivo del presente e quello ancora inespresso del futuro.


E poi c’è lei, la figlia, la madre, la moglie, l’artista, o, semplicemente, la donna che interpreta tutti questi ruoli, con le sue età ben allineate, nel paese e fuori dal paese, con il grande dono dell’arte per colorare la vita di ogni giorno.
E ancora il respiro del tempo che fugge lasciando orme invisibili sulle strade, nei sentieri, nei vicoli. Sono queste orme che la mente creativa di Germana cerca inutilmente  di seguire.
Ma il Silenzio non spalanca le porte e molte delle anime che popolano questo Luogo non hanno più voci né corpi,  vivono nell’anima e l’artista non può che affidarsi che ai loro silenziosi custodi: le case, i vicoli, i sentieri, appunto.
Eccoli! Sono nelle opere che vedete questa sera esposte, quelle che vi strapperanno un sorriso di assenso, perché li riconoscerete. Ma sono anche altro.
Un modo più intero di vivere il luogo, la gente, da parte dell’artista, un po’ come diceva Palazzeschi per la scrittura: “ scrivo per raggiungere una mano nell’oscurità.” Questo vale anche per Germana Di Rago. “dipinge per raggiungere una mano nell’oscurità.”



Tutti i nostri rapporti, se ci riflettiamo, sono dei continui malintesi viventi. I nostri affetti e legami subiscono continui e impercettibili trasformazioni. Siamo totalmente ciechi davanti alla bellezza e all’incanto dei paesaggi  che scorrono nella nostra quotidianità. Ci siamo troppo abituati ad essi. Non viviamo mai qui e adesso e la civiltà umana è ormai una propaggine deforme, il suo ritmo, accelerato, convulso, non fa che scandire il propagarsi di un morbo, di una dilagante infezione.
Tutto questo Germana Di Rago lo percepisce profondamente. Per questo ha scelto il Silenzio, per questo ha scelto la pace di questi scorci la cui recondita magia nel respiro dell’arte torna ad animarsi attraverso la carezza dei vostri sguardi.
Germana ama la tradizione, è legata al passato perché il passato le dà stabilità, le risveglia emozioni. Quelle stesse emozioni, che attraverso le sue opere, cerca di trasmettere al fruitore.
Germana Di  Rago dipinge ciò che ama e questa è un’operazione che la restituisce a se stessa e le consente l’avvio di un colloquio con gli altri.
In fondo è questo che  chiede all’arte e la risposta che ne riceve riguarda sì lei, ma, nella condivisione, anche tutti noi.

Il 23 luglio luglio 2015 Bonifacio Vincenzi ha presentato la personale dell’artista Germana Di Rago “Scorci di Francavilla Marittima”, nei locali de “L’oasi del gelato” di Francavilla Marittima (Silva).  Ne pubblichiamo l’intervento e alcuni momenti dell’inaugurazione della mostra.

sabato 18 luglio 2015

Aurora Stella



Aurora Stella:
il mistero e le paure
di Bonifacio Vincenzi



“Le tradizioni sono tradizioni. E le tradizioni vanno rispettate. Se tuo nonno fece gli scout, tuo padre pure, anche tu farai gli scout. Quando siederai intorno al fuoco, prima o poi, finirai per ascoltare prima, e raccontare poi, storie dell’orrore.”

Questo è in pratica l’inizio de “I vapori dell’inferno”, la prima storia che Aurora Stella racconta nel suo E vissero? – Fiabe horror e dintorni, edito da Panesi.
Il libro non poteva iniziare diversamente considerando che lei, come più volte ha dichiarato, è una seguace di Sir Robert Stephenson Smyth Lord Baden-Powell, Primo Barone Baden-Powell di Gilwell.  Il nome già un brivido alla schiena, considerando l’argomento trattato, lo fa sentire. Ma si tratta solo di un effetto collaterale del coinvolgimento emotivo, perché il signore in questione non è un personaggio di Mary Shelley, di  Poe o di Lovecraft, ma il fondatore del movimento scout. E il suo pensiero non era affatto oscuro ma piuttosto chiaro e ancora straordinariamente attuale. In fondo lui, contrariamente agli uomini del nostro tempo, voleva lasciare il mondo migliore di come lo aveva trovato.

Gli scout in questo caso c’entrano, come puntualmente l’autrice avverte i suoi lettori nella premessa al libro, perché, quando scendeva la notte il loro divertimento maggiore era quello di riunirsi intorno al fuoco e raccontare storie lugubri dove, dal mistero, la paura veniva fuori ed era quasi piacevole cercare di scacciarla con una risata, magari un po’ nervosa.


A parte questo, è risaputo, che non solo scrittori come Stephen King o registi come Dario Argento, tanto per fare dei nomi, ma tutti coloro che abbracciano e amano il genere horror, hanno, nella loro scelta,  come motivazione principale quella di esorcizzare le proprie paure. E a questa regola non sfugge neppure la Stella.

Scout, paura, incubi. Tre parole chiavi che svelano in parte l’antefatto genetico di questi “racconti del terrore” di una scrittrice di razza come Aurora Stella. Charles Bukowski scriveva che la  differenza tra un buon poeta e un cattivo poeta è la fortuna. Stessa regola vale per i narratori. E se questa scrittrice non è ancora conosciuta da un vastissimo pubblico è solo per questo particolare fattore e non certo per i suoi mezzi narrativi che sono davvero notevoli.

E se è vero che “non c’è niente di nuovo sotto il sole”, come saggiamente scrive l’autrice citando Qhoelet, è altrettanto vero che nel suo particolare mondo, sospeso tra realtà e sogno, la casa delle sue paure ha una porta socchiusa e scricchiolante, dove ogni lettore potrà introdursi per offrire a se stesso lo spettacolo di sé, delle sue e altrui paure.

giovedì 16 luglio 2015

L'avvio e la perdizione



“Libellula lucciola sasso pietra,/ il cuore inizia a pulsare./ Libellula lucciola sasso pietra,/ un battito, un salto e una ferita./ Giudichiamo facilmente,/ tutto è uguale o disuguale:/ è una ferita./ È una ferita/ quando tu smetti di amare.”
(Libellula lucciola sasso pietra).

L’incipit di L’avvio e la perdizione (Sillabe di Sale Editore) di Ornella Spagnulo è alquanto significativo. In questi pochi versi c’è la profonda vita di tutto il libro.
“Qualunque destino, – scriveva Jorge Luis Borges – per lungo e complicato che sia, consta in realtà d’un solo momento: il momento in cui l’uomo sa per sempre chi è.”
Questo momento soltanto la poesia riesce a coglierlo, perché per multiformi che siano le attività che una mente assorta svolge, pare proprio le sia precluso l’accesso cosciente in quello eterno attimo di distruzione e ricreazione che avviene ad ogni istante e in ogni dove, sempre.

Con l’incipit di questa silloge poetica ci si potrebbe scrivere un libro di qualche centinaia di pagine: Libellula lucciola sasso pietra, ovvero fragilità e resistenza, movimento e stasi, temporaneità ed eternità. Ma la vita rimane comunque un mistero per chiunque, anche per i poeti. Nascita, crescita, declino, morte. Un viaggio, a quanto sembra, perfettamente inutile; un viaggio che inizia e prosegue su un piano dove tutto è movimento, continua variazione di  parti, di dimensioni, di distanze. La Spagnulo non ci sta ad essere schiava di una natura multipla,ondeggiante,cangiante. Per essere liberi bisogna avere il coraggio di strappare dal proprio viso la maschera mondana e liberarsi del peso noioso della propria storia personale:

“(…) Il mio corpo,/ dotato di nome e cognome, vorrebbe uscire dal nome/e uscire dal cognome (…)” (Ascia-Sofia)

I rumori, i fragori, i successi, le ansie, le attese, i timori sono soltanto pesi che tengono legati al mondo mentre è ormai consolidata consuetudine la rinuncia a vivere la Vita …


“Questa vita è un dovere, / mi dico,/ mentre stanca la notte mi consuma/ e al giorno/ non oppongo silenzio/ ma urla/ di vuoto/ di sogno/ di uccelli in volo,/ semplici colibrì,/ che m’insegnano/ cosa è giusto fare.” (Ti chiedo)


Ma l’insegnamento dei colibrì è vano perché sono ancora i pesi a non permettere il volo, seppure a mezz’aria, a rendere impossibili le prodezze del proprio particolare impulso. Il baratro esercita il suo richiamo  e quella voce che canta sa che ogni parola, ogni gesto, ogni emozione soccombe sotto la ruota di un tempo che continuamente gira …

Impossibile fare/ salti e collegare/ passato e futuro.// Se sapessi/ viaggiare nel tempo/ capirei il mistero. //Ma sono ancora/ attaccata a un presente/ distratto.” (Il mistero del tempo)

La Spagnulo, è vero,  non tenta di risolvere l’assurdo mistero del tempo ma bisogna anche dire che il suo attaccamento “distratto” al presente non l’aiuta a risolvere il suo malessere che gravita tutto intorno ad una mancanza: l’amore.
Questo vuoto, paradossalmente,  è iper-coperto: l’amore c’è nella sua vita ed uno dei protagonisti principali di questa raccolta di poesie. Quello che manca è il mito dell’amore, quelle due note, per dirla con Rilke, che formano un vero accordo e  che “si riconciliano nell’oscuro intervallo, tremanti …”
L’energia dell’amore che travolge la Spagnulo non irradia il suo essere, non rafforza il suo equilibrio,diventa, piuttosto, una forma di dipendenza …

Tu sei l’avvio e la perdizione,/ il suono di muscoli sconsolati/ e ripresi, nelle funzioni/ primordiali,/ come a imitare/ un battito d’ali,/ una fuga vincente/ e clandestina./ Fuga da una tappa/ di clausura stanca/ per una nuova libertà/ (non libera) ma/ se quello che dici/ si riversa/ sul calice che mi fai bere,/ io non so se sono/ lieta di farti da schiava/ o piuttosto infelice/– come nelle altrui prigioni,/ quando altri costringono/ i miei passi –(...)” (Tu sei l’avvio e la perdizione)

Il mito dell’amore è un’altra cosa, ti aiuta a trovare il centro e in esso ogni cosa si armonizza fino a diventare un’orchestra, un’armonia.
Ma è anche vero che se c’è qualcosa più importante dell’amore, questa, senza dubbio, è la libertà. Pertanto, “si vorrà sicuramente amare. Ma nessuno vorrà essere imprigionato dall’amore.” Tanto meno Ornella Spagnulo che, a mio avviso è e rimarrà sempre uno spirito libero. Libertà e dipendenza. È nell’estensione di questo circuito di insidie che, nella collisione ogni slancio è una ferita. Ma è anche vero che proprio da questa ferita  sgorga la Poesia.



martedì 14 luglio 2015

Nuova luna







Lorenza Ferrari:
un nitido disegno creativo poetico ed umano
di Bonifacio Vincenzi



“Significativa  è l’irradiazione poetica in questo itinerario creativo di Lorenza Ferrari. Significativo e sorprendente il suo ri-viversi sulla pagina, nel verso. E poi c’è il tempo. Equivoco, dondolante. E poi c’è lei che costringe i suoni, gli odori, le immagini e tutto ciò che è passato a riapparire in una estensione poetica  fatta di magica bellezza,  di conversione in amore rigenerato dall’assenza. C’è un orizzonte creato da altri occhi, presenti e assenti,  dove lei completa il suo volo. C’è una rete di riflessi condizionati che viene dal cuore. È poesia tutto ciò? Forse è qualcosa di più. Qualcosa che viene da lontano. Una felicità intima, un fuoco che non  brucia ma che abbaglia,dove tutto, nell’essenza, ritorna  ed è esattamente uguale a quello che si è già vissuto.”

Il rimando evidenzia quello che ho già scritto nella quarta di copertina di questa sorprendente opera prima della poetessa  Lorenza Ferrari.  Sorprendente non soltanto perché la raccolta in questione, Nuova Luna;  edita da Aljon Editrice di Mariagrazia Scarnecchia, è risultata vincitrice, guadagnandosi la relativa pubblicazione, della prima edizione del Premio Letterario Nazionale Massimo Tamburi – accarezza un sogno … , per autori under 35; ma anche per la capacità dell’autrice di presentarsi subito ai suoi lettori con una non comune, trattandosi di un’opera di esordio,  solidità di immagini e di metafore, in un nitido disegno creativo poetico ed umano. 

                                              
                               


L’aver scritto già una nota che viaggia insieme al testo condiziona e non poco questo mio breve ed ulteriore intervento. Ho già parlato del tempo e di quell’amore rigenerato dall’assenza che insegue i passi nel silenzio, come a voler rivivere quella vita cullata nei ricordi. Ma ci sarebbe ancora molto da dire perché la vita della poesia ogni giorno travalica la sensazione da cui si origina, varca il sentire e il suo esprimersi, va verso l’abbaglio del quotidiano e ritorna a sé, diversa …
Quella che ero/ appesa per aria,/ legata al mio volo di strega pazza,/ venduta ho l’anima pur di averti/ davanti a tutti/ non mi importa,/ fessura/ lama/ punto,/ arco massimo,/ caucciù la mia schiena,/ volere, volere te./ Vendermi al diavolo,/ buttare via il resto./ Inesistenza di un ragionamento./ Salto altissima,/ oltre il non ritorno./ La tua voce lontana ora. (…)”

Tutto è così profondamente cercato, voluto: nessuna esitazione, la poesia vola alta, libera  è l’anima dalla zavorra, non ci sono più pesi a trattenere in  basso. Magia della poesia, quando c’è, quando il respiro è così ampio da farsi urgenza di aderire ai tempi dell’intreccio …
“ (…) Il mio volo si abbatte/ alla tua ricerca./ È un solco, è un arco,/ è un volo in te./ La pretesa folle/ di un volo in me./ Cercami!/ Nell’estrema irruenza dell’arrivo, / la dolcezza delle tue mani./ Non c’è mistero quando ti respiro,/ tutto è chiaro e ti ritrovo … (Diavolessa).

Per amore, certo. E per tutti i panorami che dai quattro occhi guardano dal cuore la vita e il mondo. A sguardi unificati, Lorenza Ferrari questo lo sa bene,  non c’è tempo per la “posa”. Si è straordinariamente vivi e neppure importa di saperlo.

Foto: Lorenza Ferrari premiata da Mariagrazia Scarnecchia (a sinistra) e da Rosa Adduci, madre di Massimo Tamburi

lunedì 6 luglio 2015

Disforia del nome





Lucia Gaddo Zanovello:
oltre le delimitazioni e le illusioni  dei nomi e delle forme
di Bonifacio Vincenzi



In una composizione teatrale di Kantor gli attori reggono ciascuno un pupazzo inerte. Una delle attrici si mette a ballare un valzerino grottesco, i pupazzi cominciano a seguirla e ben presto è come se essi muovessero gli attori; così gli uomini si fanno trasportare dalle loro biografie.
Questa immagine significativa è stata scelta anche  da Elémire Zolla per sottolineare che la storia personale di ognuno di noi c’entra poco con la pura musicalità dell’essere, che non è certo una pluralità di enti – per usare una parola cara a Zolla – e niente ha a che fare con le delimitazioni e le illusioni legate ai nomi e alle forme.
“Su tutto ciò che entra – scrive ancora Elémire Zolla -  nel mondo dei nomi e delle forme, un nome è inflitto, una forma imposta,  ma se l’orecchio interiore presta ascolto alla melodia segreta, alla pura musicalità dell’essere, si è liberi interiormente, quali che siano  le maschere sociali via via indossate. Non si è le varie persone successivamente interpretate, sotto la maschera si rimane senza volto, si è un vuoto risonante, una cassa armonica. Una mente ottusa e secolare reprime questa interiore musicalità: la maschera mondana diventa la pelle del viso. Allora l’idea che essa possa esserci strappata, getta nel terrore.”
Leggendo con attenzione Disforia del nome di Lucia Gaddo Zanovello, la raccolta di poesia edita da Biblioteca dei Leoni Edizioni, - vincitrice, tra l’altro, del Premio Letterario Nazionale di Calabria e Basilicata 2014, - non possiamo non sentire dentro di noi quella melodia segreta della quale parla il filosofo. Pur sapendo, come giustamente avverte l’autrice nella nota di apertura che “ non sempre e quasi mai la vita è storia a lieto fine, ma di certo e comunque è finestra aperta giorno e notte, invetriata luminosa che resta prodigiosamente spalancata sullo stupore.”
Bisognerebbe soltanto imparare a vivere la vita come gli innamorati quando si disperdono nei loro sguardi d’amore o come gli artisti o i poeti quando sono in preda al sacro fuoco dell’ispirazione. Se il tempo è la misura del movimento, in quei momenti, quando si smette di misurarlo, non esiste. Tanto che innamorati, artisti e poeti spesso esclamano, con sguardo sognante: ho perso la cognizione del tempo e dello spazio!
La vita, però, è soggiogata costantemente  alla psiche legata al suo passato, protesa al suo futuro. Così facendo oscura il qui adesso che non si misura. E di questo ne era persuasa quella poetessa straordinaria che era Emily Dickinson:
Sempre/ È fatto di tanti adesso,/Non è un diverso tempo,/ Salvo per la sua infinità/ e per l’estensione della sua casa.
Ma, si legge ancora nella nota di apertura di Lucia Gaddo Zanovello, “ il territorio dell’anima è instabile zattera immersa nell’avventura mozzafiato di vivere” e non c’è da sorprendersi se poi “nomi che furono sorrisi/giacciono nel riverbero/ di sangue e carne/ che fioriscono i secoli dei libri …”
La sosta crucciata e penosa sulle cose ci inchioda alla molteplicità tormentosa del mondo. Alla semplice affermazione dell’io sono, si preferisce sottolineare io sono questo … io sono quello. È così che ci si allontana dall’essere.
La pura gioia si percepisce qualche rara volta nel corso di una vita ed accade nel momento in cui, per un attimo, l’io e l’essere si confondono …  abita qui / l’alba che resuscita/ il telo d’incoscienza/ che ricopre il giorno appena nato
Disforia del nome  di Lucia Gaddo Zanovello è un libro poeticamente bellissimo e profondo. La parola porta il tocco ispirato attinto dalla profondità dell’anima. Non può lasciare indifferente nessuno. Viene dalla vera Vita, quella che noi, quotidianamente, oscuriamo.


sabato 4 luglio 2015

Fermata del tempo








Stelvio Di Spigno:
il personale sentire di un poeta autentico
di Bonifacio Vincenzi



“Parlo di età: adesso, allora. Ma quale è la mia vera età di oggi, se le contiene tutte, nessuna consumata, nessuna maturata, tanto che non riesco a seguire il trapasso all’una all’altra? Mi pare di vederle tutte allineate, parallele e discordi, cavalli malamente assortiti, aggiogati allo stesso carro.”
Così scriveva la scrittrice napoletana Clotilde Marghieri nel suo romanzo più famoso, Amati enigmi,  pubblicato da Vallecchi nel 1974 e vincitore del Premio Viareggio.
Gli amati enigmi toccano anche il poeta napoletano Stelvio Di Spigno che al contrario della Marghieri sembra voler fare delle distinzioni tra un’età e l’altra. Questa sua Fermata nel tempo (Marcos Y Marcos), nel peccato del cambiamento, dove il lutto non si addice alla corsa del tempo,  è, in realtà, una fermata nella Poesia, che è l’unica  e fedele custode di tutte le età.
Stelvio Di Spigno è un poeta autentico, un poeta che merita un posto di riguardo nel panorama della poesia italiana contemporanea.
Vogliamo parlare della sua sensibilità? Una sensibilità sofferta, messa a dura prova dalla durezza di un mondo che riconosce a stento il respiro di un’umanità sempre più confinata in  una dimensione quasi inaccessibile …
C’è sempre un anno che precede, con una voce corta/ che ti dice che è giusto partire, rimescolare/ le frasi, fare a pugni coi desideri e le intenzioni,/ e c’è sempre un anno nuovo, nel quale è doloroso/ tornare, rivedere volti appesantiti, anche se di poco,/ perché poco  il mondo si è spostato, giorno per giorno,/ mentre pensavi che tutto passasse a rilento./ E ora eccomi qua, nella stanza come nuova,/ tra pareti che non parlano più, e che a stento,/ se potessero parlare, mi riconoscerebbero …” (La voce corta).
La vita, in fondo, è questo immaginare di andare avanti, questo far finta di credersi cambiati. In realtà sono solo i corpi che invecchiano: dentro non si cambia. Se si cambiasse solo in minima parte, l’esistenza non confinerebbe con gli abissi dei rimpianti.
Poeti come Di Spigno, con intelligenza e sensibilità, tormentano il loro personale sentire, per richiamare la Poesia, l’unica casa edificata vicina ai panorami dell’ eternità. E tutto questo “privilegio” ha un prezzo molto alto pagato con la moneta della sofferenza …
“Il ricordo mi distrugge eppure/ ascoltare le campane/ altrove mi riporta/ alle calle della vecchia chiesa,/ a mio zio che le metteva sull’altare/ senza lasciarmi la mano …” (sottrazione, 4)
Un’altra fermata nel passato mentre un’aura si veste di parole e, per dirla con Umberto Fiori, che ha scritto la prefazione al libro, “il male di vivere è là, solido e trionfante, ma la poesia sa affrontarlo a occhi asciutti, sa addirittura cantarlo.”


mercoledì 1 luglio 2015

Il dialetto della vita






Il testo che qui pubblichiamo è  la prefazione di Bonifacio Vincenzi alla silloge poetica di Pasquale Montalto, edita recentemente da Apollo Edizioni. Il volume, tra l’altro, è il sesto della collana “Chatila” e contiene una doppia silloge: Il dialetto della vita di Pasquale Montalto e  Il Sogno La Vita La Bellezza di Domenico Tucci. 



Pasquale Montalto condivide il dialetto della vita con le parole dell’amore
di Bonifacio Vincenzi


Sono uomo:duro poco/ ed è enorme la notte./ Ma guardo verso l’alto:/ le stelle scrivono./ Senza intendere comprendo:/ sono anche scrittura/ e in questo stesso istante/ qualcuno mi sillaba.”
In questi pochi e significativi versi di Octavio Paz sta tutto l’operare del poeta. C’è dell’altro,  però. L’Uomo e l’Universo, per esempio. L’uno di fronte all’altro, così spaventosamente  diversi. Il limite e la dimensione senza limiti. Il tempo limitato della vita e, dall’altra parte, il tempo che si annulla perché diventa relativo.
Poi c’è la poesia che recupera questo strappo raccontando  l’istante a suo modo, tenendo conto della ragione,  ma andando  oltre, cogliendo nel silenzio il senso ma anche ciò che viene prima e dopo il senso.
Chi conosce Pasquale Montalto sa del suo rapporto intimo profondo con la poesia. Scrivere per lui è un atto di fede, è un impegno irrinunciabile,  è scavalcare le chiusure,  è battere i tasti dell’amore e della pace.
D’altronde, ci sono due tipi di persone al mondo: quelli che vivono rivolti verso la morte e quelli che vivono rivolti verso l’amore. Montalto ha scelto di vivere rivolto verso l’amore. Ma l’amore è possibile viverlo solo qui e ora. Non si può amare nel passato né nel futuro. Si può amare solo qui e ora.
La poesia è un atto d’amore, coglie l’attimo del qui e ora. Per Pasquale Montalto nel cuore e nella poesia anche il dolore non è mai definitivo e opprimente ma può mutare e trasformasi improvvisamente  e in quell’attimo che arriva,/ dove la vita cambia registro,/ col fiore del ciliegio/ e il sapore del melograno,/ sull’odorosa brezza della pigna,/ si rinnova la ragione del vivere.”
L’uomo consapevole e il poeta sanno che l’inferno in questo mondo non smette mai di ardere, non si è mai al sicuro dal male e dall’angoscia, ma è  proprio in questi momenti che magica speranza,appare la poesia,/ che puntuale filtra nello spazio nero,/ non per scriverla, ma per essere ascoltata,/ e per seguire il tracciato di una parola,/ che non è più parola al vento,/ ma sincerità di cuore …”
Nel dialetto della vita la condivisione è la parola più importante. L’amore, per avere senso, bisogna poterlo condividere attraverso la poesia, attraverso i gesti semplici del dare. Condividere è una delle grandi virtù spirituali.
Il poeta Montalto condivide ciò che è, condivide ciò che fa. Condivide l’Amore, condivide la Bellezza, condivide la Speranza, condivide il suo continuo e immutato Stupore. Lo fa attraverso la parola vera, bella, libera, giusta.
Nel dialetto della vita l’amore è nel volto delle madri, è nel risveglio  di ogni giorno ed è sempre capace di tutelare una vita senza ego, una vita umile, una vita semplice, una vita in cui Dio e l’Umanità possano vivere. Nel dialetto della vita il sentire è capace di armonizzare il giusto modo di pensare.
Scriveva Edmond Jabès che “esistere è aprirsi progressivamente alla condivisione. È condividere la vita con la vita, la gioia con la gioia, il dolore col dolore, la morte con la morte. Insomma, l’istante con l’istante.”
Pasquale Montalto condivide una visione della vita nella sua totalità. L’accetta per quella che è anche se si riserva, attraverso la poesia, di cogliere ed elevare tutte quelle manifestazioni capaci di riscaldare il cuore.
C’è luce nei suoi versi. Ci sono i profumi, ci sono i colori, c’è l’aura nei luoghi, nelle persone e nelle cose. Alla fine ciò che lui profondamente vuole, senza eccessive pretese, è che il posto in cui vive diventi più vivo è più bello, più in sintonia con il suo cuore.
Il sentiero che lui percorre è semplice ed è facile e tutto ciò che gli occorre per vivere bene e per vivere meglio, è questa suo profondo rapporto con la vita e con la poesia perché, come lui stesso confessa in questi versi: “senza pensieri, senza pretese,/ sono gli anni/ del dialogo con me stesso./ E ho allontanato il mio designato destino/ per costruire e aprire la via/ alla grande ricchezza/ e al potere di immaginare/ un domani diverso./ Sono pronto a seguirti/ e amarti in verità e libertà,/ mia essenziale leggerezza,/ centro dell’anima ispirata, SE’,/ che nella giocosità della gioia/ravvivi di fantasia il mio cuore felice.