domenica 26 giugno 2016

Telepatia





“Telepatia” di Gian Mario Villalta
Un libro che ti entra dentro
di Bonifacio Vincenzi


“A cinque anni dall'uscita dell’ultima raccolta (Vanità della mente, Premio Viareggio 2011) - racconta Gian Mario Villalta - credo di avere, se non risolto, approfondito molti dei problemi formali che mi portavo dietro da tempo. Ne risulta un libro più fruibile, che entra in dialogo con il lettore. Per me una tappa davvero importante.” 

Sta parlando chiaramente della sua nuova raccolta di poesia, Telepatia, edita recentemente da LietoColle e che in pratica inaugura la collana di poesia “Gialla Oro”, diretta da Augusto Pivanti.

Telepatia propone 19 poemetti, in circa 150 pagine di versi. Un percorso poetico che ha attraversato tre anni della sua vita, ma ne è valsa la pena, perché queste poesie sono un vero e proprio dono per tutti quei lettori che volessero riconciliarsi con una lettura poetica appagante e, per una volta, vicina al loro sentire.

Questo libro Villalta lo ha pensato e scritto per i lettori, quindi, ed  è già questa una grande novità  nel panorama della poesia italiana dove i “poeti laureati” scrivono ormai soltanto per gli addetti ai lavori. Lo fanno per meglio rientrare in quella logica scambista che mortifica, affossa sempre più la buona Poesia.


Questo suo essere dalla parte del lettore di poesia, in verità, Villalta lo sta da tempo sperimentando in qualità di direttore artistico di Pordenonelegge. Il Festival è ormai tra i più importanti d’Italia e,  presentando sempre poesia ad alti livelli, richiama di anno in  anno, un numero sempre più crescente di appassionati.

Ma torniamo al libro soffermandoci, per un attimo,  su questa poesia:

L’ho mai detto, io, ai miei,/ agli amici, agli alberi, al cielo,/ anche quando davvero potevo,/ a qualcuno ho mai detto: “Sono felice”?/ Mia figlia lo dice senza pudore,/ senza paura che qualcuno le invidi/ la felicità, senza pietà per suo padre/ che la stringe in silenzio e se dice “Anch’io”/ poi deve correggere “in questo momento”.”

I bambini, certo,  non hanno paura della felicità tantomeno della verità. I bambini sono innocenti. Loro ascoltano la pura musicalità dell’essere. Non indossano maschere sociali e non hanno ancora attraversato tutti gli sconvolgimenti dati dalla furbizia e dal calcolo che li faranno diventare adulti.

Come faceva giustamente notare Elémire Zolla in Archetipi, per gli adulti “la maschera mondana diventa la pelle del viso. Allora l’idea che essa possa esserci strappata, getta nel terrore; tutto si affronta pur di non perdere la faccia. (…)” Per poi rafforzare il tutto con questo bellissimo richiamo:


“In una composizione teatrale di Kantor gli attori reggono ciascuno un pupazzo inerte. Una delle attrici si mette a ballare un valzerino grottesco, i pupazzi cominciano a seguirla e ben presto è come se muovessero gli attori; così gli uomini si fanno trasportare dalle loro biografie.”

Gli adulti, al contrario dei bambini, non riescono a disfarsi del pupazzo che li guida, spezzando così una volta per tutte l’identificazione con la propria biografia. Questo dover essere sempre ciò che profondamente non si è, questa impotenza di fronte all’istinto di lasciarsi andare e ascoltare, per una volta senza imbarazzo, la pura musicalità dell’essere, è la causa che spinge inevitabilmente verso l’imponente esperienza del dolore.

La poesia di Gian Mario Villalta, che ho appena citato, è, a mio avviso, una delle più significative della raccolta, perché meglio fa comprendere la reclusione nella nostra prigione concettuale. Non ci sono catene o sbarre: è una prigione dalle porte e finestre spalancate. Evadere è impossibile perché non rientra nelle nostre priorità. La forza dell’emozione, alla fine, è un grande problema perché spezza la forma consueta della persona, la rende debole semplicemente perché ha così poca esperienza della felicità e così tanta del dolore.


Non mi ha sorpreso affatto, quando, nella nota finale dell’autore, Villalta, ha sentito il bisogno di reprimere quello che lui definisce una debolezza:

“Imperdonabili le poesie sui figli, lo so, quasi quanto quelle sulla madre. Però che mi vergogno lo dico già nei versi, e quindi poi mi pareva più ipocrita secretare quello che avevo con tanta sollecitudine scritto.”

Villalta ha un nome, un ruolo. Ancora Zolla: “Nome e forma descrivono le cose, ma prima viene il nome, perché riflette l’archetipo a cui esso appartiene. Quando una cosa si altera, vuole  un nuovo nome proprio, che rifletta l’archetipo diverso che ormai la regge. Sinonimo di nome è “onore”. Ciò che lega l’uomo, l’incantesimo sociale che gli è stato fatto.”

Da qui si capisce come sia inevitabile prendere le distanze per non uscire dall’incantesimo e trovarsi  faccia a faccia con se stessi.
Paradossalmente,  è più facile rinunciare alla felicità ( che così poco si conosce) che al dolore (che così tanto si conosce). La ragione ce la spiega Villalta, in questa  poesia:

Perdere il dolore/ a volte è perdere tutto. Per questo non rinuncia/ all’umiliazione di sentirsi dire che non lo vuole./ Adesso sa ancora chi è. Dopo c’è solamente, /dove dovrebbe/ ricominciare, il niente.”

Gli uomini non rinunciano alla loro biografia, non sono disposti a perdere loro stessi, per riconquistarsi. Eppure c’è in ognuno di loro questa sete di tornare a certe serate memorabili, così rare nell’intero percorso di una vita:

È una scemenza, va bene, che una giornata è bella/ perché finisce, come un fiore è bello perché sfiorisce/ e via dicendo, tutto questo mondo con noi dentro/ fatto così, è stupido dirlo, per andarsene, come una sera/ che ricorderemo: solo uno scemo spera/ di farci una poesia – lo sa chiunque./ A meno che non sveli perché è vera./O almeno, se non perché, quando succede/ che ogni cosa diventa più preziosa,/ quando il tempo quasi ti precede/ più veloce di te nell’abbandono,/ quando le cose abbandonano te, le persone,/ i sogni di quando eri giovane, senza volere abbandonarti o che tu le abbandoni.

Ricorderemo sempre, a distanza di tempo,  una serata memorabile, perché nel momento in cui la vivevi, come scrive sempre Zolla, questa volta,  in Aure, “sarebbe stato assurdo domandarsi il senso della vita, perché stava lì davanti a noi, reso sensibile in un’aura. La felicità intima è l’evocazione di questi momenti vissuti nel passato ma mai trascorsi, delineati nella luce limpida, abbagliata dell’interiorità, più vera di quella del sole.”

“Diciannove poemetti sul vivere e sul vissuto. Presenze, incontri, dialoghi, intuizioni, riflessioni catturate nell’arco degli anni, sospese fra la parola poetica e il battito dei pochi istanti in cui sono affiorate. “ In questa definizione si è voluto collocare, al momento del lancio, Telepatia, ma il libro va ben oltre, il libro ti entra dentro, vive con te attraverso i lavori dello sguardo. Il libro fa bene alla poesia, si riconcilia con il lettore, si offre come specchio per la nostra anima.


Prima di avviarmi alla conclusione, mi piace ricordare il poemetto  in dialetto veneto periferico Tra mi e ti – con Andrea Zanzotto due anni dopo.
“La traduzione – spiega Villalta in nota – è solo per chi non accede assolutamente ai versi in dialetto. E per questo è pensata in una sua autonomia lessicale e semantica, pur rimanendo una traduzione.”

“(…) Sol che tra mi e ti, in te un parlar che l’à la dh e la th,/ come i nostri veci( drento ‘sta nova/ comunion- distanzha, diventadhi i stessi veci),/ co’ quela zh che là ne à portà/ a parlar a strazhabaloò, a strazhamarcà, co’l dialeto/ e cò l’italian, par ore e ore par très de le parole/ de tute le lingue de la poesia. (…)” (Solo tra me e te, in una lingua con la dh e con la th,/ come i nostri vecchi ( ora, in questa diversa/ comunione – distanza, diventati gli stessi vecchi)/ con quella zh che ci ha portati/ a parlare a più non posso, (gratis – quasi – in quantità) con il dialetto/ e con l’italiano, per ore e ore attraverso le parole/ di tutte le lingue della poesia. (…)

Un omaggio al mai dimenticato maestro e alla sua casa, un modo per guardare, ancora una volta, il grande spettacolo della natura, da quella finestra nuova che Zanzotto era riuscito a realizzare nella vecchia casa di suo padre che, tra l’altro,  era un buon pittore di paesaggi ed era capace di far apparire miracolosamente sulla tela quello che  gli occhi del grande poeta vedevano davanti a lui. Quella finestra, “purezza inestinguibile”, per un unico sguardo di poeta, che rimanga lì “ dentro la mare de un temp robà al passà,/ robà al present, un temp fora dal temp.


Immagini in ordine di apparizione: 1. Copertina del libro; 2. Prdenone legge (panoramica sul pubblico); 3.  Elémire Zolla; 4. Gian Mario Villalta; 5. Andrea Zanzotto.

domenica 19 giugno 2016

L'inciampo





Daniela Pericone:
nell’oscuro intervallo, la poesia
di Bonifacio Vincenzi


Io sono la pausa fra due note che formano un vero accordo;
cosa affatto rara,
perché la nota della morte tende a dominare:
Ma le due si riconciliano nell’oscuro intervallo, tremanti;
e la canzone resta immacolata.

Rainer Maria Rilke ovvero quando la poesia raggiunge le alte vette. Per questo inizio, per questo nuovo viaggio nel cuore di una donna e della sua poesia: Daniela Pericone.
Nel suo ultimo libro, L’inciampo (Premio Francesco Graziano 2016), pubblicato da L’Arcolaio, la parola, racchiusa nel proprio stupore, nell’oscuro intervallo si muove, si interroga, tende ad aprirsi e chiudersi in uno spazio che abbaglia per poi ritirarsi nella profondità:

l’ultima nota ancora smuove
un’aria immota greve di quiete
di presentita veniente non vita

il fine ultimo non è che la fine
dardo inarcato sin dagli esordi
verso l’istante che rabbuia

a ogni seme di nuova arsura
quanto serrare forte di pugni
quanto implorare selve di fiati

nudo sull’osso lo sguardo
senza velami né terrori
solo un adagio e scivoli fuori

Il linguaggio del pensiero, del cuore, dell’ansia, del canto poetico verso un’unica direzione, nell’oscuro intervallo, turbati soltanto dall’irruenza dei ricordi, una distrazione, un inciampo, per l’erranza.


Daniela Pericone con la sua saggezza dagli occhi pieni di lacrime, citando un verso di René Char, chiede alla poesia quella verità che non si può e non si deve accettare, la chiede, pur sapendo che la vita ha le sue regole, i suoi segreti ed è intollerante alla sentenziosità e all’ inconoscibile e, spesso, completamente assente:

(…) la vita è altrove – ma non sul piano
lungo e malioso dell’orizzonte
la vita è dentro – giù nel fondale
di spesse nubi d’un volo che tace (…)

Altre parole non servono, ultima a parlare sia, ancora, la Poesia:

Dentro
bisogna entrare dentro
affondare il volto dentro l’acqua
non è come dicono
che si deve spingere e lottare e sbracciare
per restare a galla
piuttosto scivolare per sopravvivere
assaggiare l’abisso
guardarlo a occhi salati e spalancati
sentire che si muove d’inedia
in superficie che andare verso il fondo

è risalire

venerdì 17 giugno 2016

Il buio e la luce









“Il buio e la luce” ,
il nuovo libro di Marco Nicastro
di Bonifacio Vincenzi

Si ha più ansia di vivere o di morire?”… “Cosa potrò mai chiarirti sulla certezza del sapere?” … “Sentire nell’inerzia o vivere agendo?”…” e questa gioia dimmi, da dove proviene?”…

Queste sono solo alcune delle domande che Marco Nicastro si pone nella sua ultima raccolta di poesia  Il buio e la luce (Aljon Editrice, 2016).

La nobiltà della domanda, dunque, una luce che taglia l’oscurità e poi scompare. Una luce, però,  accolta dalla parola poetica, ancora più viva perché avvolta dal suo eterno mistero.

“Ci si interroga nella notte; – scrive Jabès – ma la domanda, mossa da un comprensibile bisogno di vedere per noi, di vederci in lei – è sempre voltata verso la luce.

La luce della domanda è sempre domanda alla luce.

Una candela accesa basta a delimitare lo spazio dei nostri pensieri, dei nostri gesti, dei nostri scritti.

Amara è la delusione di non poter varcare le frontiere del chiarore.

Scrivere non sarebbe, allora, che proiettare un po’ di luce attorno alle parole.”

È quello che fa Marco Nicastro. E lo fa sorprendendo il tempo nell’atto di passare. Lui sa che non si può trattenere nulla. Tutto passa e lentamente scompare. Forse mai definitivamente. Rimarrà tutto sospeso tra il buio dell’oblio e la luce del ricordo.

“Perché esisteva il tempo? – è la domanda che si pone il protagonista del romanzo di Hermann Hesse, L’ultima estate di Klingsor  – Perché sempre e soltanto questo succedersi delle cose e mai la travolgente sazietà dell’unisono? (…) Un uomo poteva godere per l’intera sua breve esistenza, poteva creare, ma era pur sempre costretto a cantare una canzone dopo l’altra e mai risuonava la piena sinfonia con le sue cento voci, a un tempo, e i suoi strumenti.”

Gli incontri, i ricordi, l’amore, la bellezza, la gioia, i dubbi per Nicastro diventano le cifre poetiche di un vivere che non riesce a districarsi dall’incalzare di una domanda che di sicuro non troverà una verità definitiva nella risposta.

Inevitabile, poi,  cercare rifugio nella Poesia:

Lento appare un assembramento/ d’immagini sospese;/ non c’è modo di districarne la forma./ Ciò che vorrei sapere è se l’emblema/ brilli realmente o si eclissi/ in una miseria d’intenti.//Parlami vita,/ ch’io possa essere te/ in un unico abbraccio danzante.”


lunedì 13 giugno 2016

Premio Francesco Graziano 2016




DANIELA PERICONE E BONIFACIO VINCENZI VINCONO IL PREMIO LETTERARIO “FRANCESCO GRAZIANO” 2016

La giuria presieduta da Annalisa Saccà,  docente di letteratura italiana presso la St. John’s University di New York, e composta da: Luigina Guarasci, direttore de ilfilorosso di Cosenza,   Vincenzo Ferraro, dirigente scolastico e critico letterario di Cosenza,  Salvatore Jemma, poeta e saggista di Bologna, Maria Lenti, poeta e saggista di Urbino, Giuseppe Sassano, docente e promotore culturale di Cosenza, Mariangela Chiarello, segretario del premio di Cosenza ha deciso di premiare:

Sezione A – POESIA EDITA:
Primo premio ex aequo:
-       Daniela Pericone (Reggio Calabria): L’inciampo (L’arcolaio);
-       Bonifacio Vincenzi (Cosenza)Bataclan (LietoColle).

Secondo premio:
-       maria luisa daniele Toffanin (Padova): Florilegi femminili controvento (Il Convivio);

Terzo premio:
-       Adelio Fusè (Milano)La veglia del sonnambulo (Book Editore).

Menzione Speciale - Poesia Edita:
-       Alberto Accorsi (Milano): Odì (Cfr Edizioni)
-       Angela Caccia: Il tocco Abarico del dubbio (Fara editore)
-       Grazia Di LisioUn asciugar di tempo ( Noumbs)
-       Teresa Marsico (Rogliano): Pur se durevoli un giorno (Aletti)
-       Giovanna Melchionda (Civitavecchia):Il mito della vita (Ibiskos)
 La cerimonia di premiazione del concorso di poesia dedicato a Francesco Graziano si terrà sabato 18 giugno presso il museo di Arte sacra di Rogliano, alle 17:30.