mercoledì 27 gennaio 2016

Cantami cose di terra






Alessia Fava:
poesie di una madre
di Bonifacio Vincenzi


s’insinua dorato un canto d’arance al mattino/ pieno di te, intrecciato di erba alla gola su pelle/ di vetro che cade alle mani e si schiude// la fronte è sommersa da gigli in scintille/ di fede, torrenti infuocati pulsanti alla foce

Una festa per lo sguardo. Molto di più. Una dichiarazione d’amore immenso al proprio figlio. Amore di bambina, di donna, di madre. Amore che riempie la voce, gli occhi, i pensieri. Amore che contagia la vita.

Lei, la madre, è Alessia Fava. Ma è anche poeta  che ingurgita “strascichi di versi” che si fanno libro, questo libro: Cantami cose di terra (LietoColle).

“La poesia – scrive Silvio Raffo nella prefazione -  rivitalizza, rigenera anche cantando la lacerazione della nascita, l’irraggiungibilità dell’altro divenuto creatura autonoma, ‘il guizzo verticale della sofferenza’.”


La grande capacità di Alessia Fava è quella di riuscire a comunicare l’emozione, di mostrare aperto e instancabile il senso della gioia nell’esperienza del suo sentirsi ed essere madre; di saperlo fare con parole poeticamente vive:

restami nel fiato d’eterno in trame d’azzurro col cuore/ di ieri cucito ai miei giorni e cadimi ancora più dentro// sei dal volto alle dita il senso rotondo, il viaggio/ l’alba di ventre bruciante, il vascello perso alle braccia/ di desiderio tremante, eretto in questa mia stanza d’ambra


Il grande privilegio di chi legge, invece, è tutto da scoprire nel risveglio di quella parte di sé  che, per dirla con Pessoa,  ci fa guardare, nei momenti di gioia, la vita come una sete soddisfatta.

martedì 26 gennaio 2016

I poeti e la crisi






Giovanni Dino:
i poeti al tempo della crisi
di Bonifacio Vincenzi


 Nel mese di settembre del 2015 è uscito, edito dalla Fondazione Thule Cultura, a cura di Giovanni Dino, il volume antologico di poesia I poeti e la crisi.

Ma perché Giovanni Dino ha deciso di raccogliere in un volume di  trecento pagine circa duecento poesie che parlano della crisi che ha toccato il nostro Paese? Qual è il significato che ha voluto dare a questa interessante operazione editoriale?

Bene, nella lunga nota del curatore che apre il libro, Giovanni Dino chiarisce molto bene quale sono state le motivazioni che lo hanno spinto a iniziare e portare a termine questo progetto, probabilmente, unico nel suo genere.

“Con  I poeti e la crisi – scrive Dino – abbiamo voluto proporre un’operazione culturale, rivolti ad autori desti e coraggiosi, disposti ad un impegno creativo, ma anche – e perché no? – foriero di stimolanti idee e consigli, di qualche utile suggerimento, che in ogni caso aiutasse a riflettere, a prendere coscienza, in modo pacifico e democratico, di un grave problema del Paese. La poesia ha sempre qualche risorsa impensabile. Dunque non un coro di lamentazioni, non uno sfogatoio personale e collettivo, non uno strumento di guerra e di vendetta, né un’occasione per puntare l’indice verso qualcuno o qualcosa. Nemmeno un’occasione per una poesia incipriata per ritrovarsi dentro a un libro come in un club, per leggersi e farsi leggere. Abbiamo voluto che fosse un  documento – testimonianza, un modo di scendere in campo. E anche una risposta a chi, fra venti o trent’anni, si trovasse a chiedersi cosa avessero fatto i poeti di oggi in un’Italia investita da un uragano, prostrata da un impoverimento di massa.”


Non è possibile, certamente, parlare delle poesie dei tanti poeti inseriti nel libro, ma ci sembra opportuno sceglierne, simbolicamente, una della grande poetessa italiana Alda Merini. Giovanni Dino della Merini  ha pubblicato due poesie. E di queste due, noi abbiamo molto apprezzato I poeti lavorano di notte che c’è sembrata, visto il tema trattato, molto significativa: “I poeti lavorano di notte/ quando il tempo non urge su di loro,/ quando tace il rumore della folla/ e termina il linciaggio delle ore.// I poeti lavorano nel buio/ come falchi notturni od usignoli/ dal dolcissimo canto/ e temono di offendere Iddio.// Ma i poeti, nel loro silenzio/ fanno ben più rumore/ di una dorata cupola di stelle.


Non è possibile, in questa breve nota, citare i tanti autori importanti che Dino ha inserito e che con le loro poesie hanno reso pregevole questo libro. Poeti, tanto per fare qualche nome, come Amedeo Anelli, Mariella Bettarini, Donatella Bisutti, Anna Maria Curci, Guido Oldani, Alessandro Ramberti, Nazario Pardini, Daniele Giancane,(che nel panorama della poesia italiana hanno peso e valore), nel dare la loro adesione a questa operazione culturale  , hanno riconosciuto l’ammirevole sforzo di Giovanni Dino che con questo agile volume, al di là di ogni considerazione di contenuti o, come si suol dire, di messaggi, dimostra come la parola, in questo caso, abbia un peso sì di assoluta essenzialità poetica ma come rappresenti anche una sorta di mosaico significativo della nostra quotidianità al tempo della crisi, e proprio perché mosaico, apprezzabile nel suo rivelarsi, alla fine, in una visione di perfetta unità.

venerdì 22 gennaio 2016

L'assedio di Famagosta







Guglielmo Aprile:
una vita da assediato
di Bonifacio Vincenzi

Edvard Munch  nei suoi diari scrive: “Conoscete il mio quadro l’Urlo? Ero al limite delle mie forze – completamente esausto. La natura urlava attraverso le mie vene – stavo precipitando nell’abisso (…)Conoscete i miei dipinti,  in loro potete vedere ciò che ho vissuto.” A Munch l’arte ha salvato la vita nel senso che tutto il carico di dolore, di angoscia non gli è esploso completamente in testa solo perché ha trovato uno sbocco in una liberatoria trasposizione in immagini sulla tela.

Ora, leggendo questo ultimo libro di Guglielmo Aprile, L’assedio di Famagosta (LietoColle), parafrasando Munch, a proposito di Aprile possiamo immaginare che ci dica: Conoscete le mie poesie,  leggendole potete sentire ciò che ho vissuto.

Sì, perché la sensazione è la stessa che con Munch: il suo vissuto inconscio pesca dall’antro del suo dolore interiore una quantità impressionante di immagini e sensazioni inconsciamente modificate. Tutta questa massa è in continuo movimento e la spinta verso la coscienza è forte e pericolosa perché  ogni passaggio nella mente equivale ad una vero e proprio attacco alieno.

In questo senso l’Arte, la Poesia davvero salvano la vita e il sentirsi come si sente, a mio avviso, Aprile, un assediato di Famagosta, non è affatto una condizione negativa ma evidenzia nettamente una forza e un coraggio straordinario.

Questo perché la difesa di Famagosta fu una delle pagine più drammatiche e gloriose della storia veneziana.  Nel 1571 il prefetto civile Marcantonio Bagadin e il capitano di ventura Astorre Baglioni con un esercito veneziano di 500 soldati affrontarono l’esercito ottomano di duecentomila soldati. Alla fine la fortezza fu espugnata ma all’esercito ottomano l’assedio di Famagosta costò cinquantaduemila morti.


Aprile, dicevamo, si sente come uno dei 500 soldati veneziani. Sa di non poter vincere la battaglia contro il suo malessere ma è deciso a vendere cara la pelle. Ha un’arma bianca letale: la Poesia.
Il re spodestato, rinchiuso/nella torre più alta, da solo,/sentitelo come delira!//Non ha con chi parlare, e sono mesi/che ha rinunciato al sonno; e quante volte/l’uccello bianco della follia, con la sua risata atroce,/gli è balenato dinanzi! E lo tenta/a strangolare mentre dormono i suoi parenti,/a versare liquido verde nei pozzi,/a bruciare vivi senza giustificazione/gli ambasciatori giunti a informarsi della sua salute;/a tenerlo a bada è solo/l’efficiente turnover dei carcerieri.//Lo hanno dovuto rinchiudere, si dice,/perché fuori controllo, e il suo spettro/viene ancora evocato per far paura ai bambini,/anche se in tanti/non l’hanno mai visto in faccia, e pensano persino/che sia il frutto di una superstizione.//Il re, come delira/dall’alto della sua torre! Fatelo tacere,/vi prego, fatelo tacere/o l’intero regno cadrà nello sconquasso,/diverrà ingovernabile.”

In questa poesia, come in tante altre presenti nella raccolta, è trasfigurato magnificamente lo stato d’animo tipico  di chi vive una vita da assediato che, pur scontrandosi con delle difficoltà interiori di notevole spessore, riesce a mettere in campo  uno straordinario talento poetico. Certo, la poesia non ha il potere di far scomparire il dolore interiore ma di sicuro dona senso e lenimento al quotidiano tormento.

Immagini in ordine di apparizione: 1. Copertina del libro; 2. L’urlo di Edvard Munch; 3. Guglielmo Aprile.


martedì 19 gennaio 2016

Jeanne Delair abita qui





Alessandra Cenni, una  poeta che ti si pianta in cuore
di Bonifacio Vincenzi



I poeti che scrivono allo specchio/ sono mediocri come una mattina/ di vetri appannati/ a televisioni accese/ Pavoni degli applausi./ Datemi un poeta che sia grande e umile/ sia timido come un dolore/oh non voglio vanitosi in turpiloquio/ ma un poeta che ti si pianta in cuore/ con la sua fatica d’operaio/ e quando ti ama/ faccia della sua vocazione/ il tuo cuscino, il respiro/ all’orecchio, le scarpe lasciate sotto il tetto./ Se il poeta non sa di essere nulla/ pigolano come bimbi africani/ non riempiamo il loro ventre di parole/ di narcisi svolazzanti/ma sia pane e acqua/ semplici come un grido/ un poeta sta in piedi/ ma la sua anima è in ginocchio/ davanti alla sua donna gazzella e tigre/ se non sei umile taci/ che gridi, baci/ con la tua bocca che fa concerti?/ il latte della tua puttana è acido/ Ma che diceva Sexton/avvicino l’orecchio alla terra/ Una donna ha il talento/ di accendere fuochi/ stiamo correndo come scintille/ nella valle nuda e buia/ prova a spegnere l’incendio/ come una pioggia di seme sterile./ Non sei dio, o dio uomo/  dio è morto/ ed è morto da Uomo.”

In questa poesia di Alessandra Cenni, tratta dalla raccolta di poesie Jeanne Delair abita qui, edita da LietoColle è racchiusa la sua visione,  sulla poesia, sui poeti, sull’uomo, sulla donna, sul mondo, su Dio. C’è altro, naturalmente. Jeanne Delair, per esempio. Già, ma chi è Jeanne Delair? Inutile scervellarci per risolvere l’enigma. In realtà non c’è nessun enigma perché la Cenni, nella nota introduttiva alleggerisce subito i lavori dello sguardo dei suoi amati lettori: ““Jeanne Delair” è stato il mio nick name per qualche tempo e sotto questo falso nome, differendo per difetto nell’osservanza da Le Grand Jeu dell’identità di Cristina Campo, ho dato vita ad un personaggio che poteva somigliarmi o no, su cui potevo o no proiettare verità e idealizzazioni, esperienze ed aspetti anche segreti a chi mi conosceva nella realtà, e che otteneva un’attenzione fondata prima di tutto sul carattere di ignoto, di ‘mascherato’ che la contraddistingueva.”


Certo, però, che non è facile uscirne. Jeanne Delair abita nella cornice del pc o qui, nella pagina bianca macchiata di segni che si incontrano, si intrecciano, parlano solo alle carezze dello sguardo? Non serve rispondere alla domanda. Meglio tornare alla fonte, meglio tornare ad Alessandra che sarebbe più felice senza la sua poesia; più felice se fredda, misteriosa, assente. Ma probabilmente mente. Meglio tornare allora ad Alessandra che abita qui dove Jeanne non c’è. Jeanne è partita, è scomparsa nell’esplosione del mistero svelato.

Ma la poesia “non è poesia/ se non sa resuscitare/ le acque sepolte/ e muovere montagne/ con le virgole/ più piano o più dentro/ respirando/ se non riconosce la tua impronta/ dimenticata sul cuscino di un amante …

La Poesia, come Dio, sta morendo. Praticamente in via di estinzione i poeti umili che ti si piantano in cuore. La Poesia non sa più dove andare, vaga di qua e di là cercando una Alessandra che non sia Jeanne; una Alessandra lampada cieca così brava a sognare la luce.

LietoColle


domenica 17 gennaio 2016

Fidati dei tuoi occhi







Lo sguardo saggio e penetrante di Kersti Merilaas
di Bonifacio Vincenzi


La poesia di Merilaas pur fortemente radicata nella terra natia si innalza verso un cielo che ci appare familiare: il fulcro espressivo dei versi, infatti, nasce sempre dall’esperienza umana concreta della poetessa. E non bisogna neppure dimenticare che questa poesia sorge in un’area geografica che per molti decenni fu isolata e chiusa dentro i muri divisori delle ideologie. Eppure quella condizione forzata non fu sufficiente a determinare accettazioni passive o rinunce. Merilaas superò tutti i vincoli esterni in virtù della sua grandezza d’animo, della sua disposizione mentale fiduciosa, con l’aiuto di uno sguardo saggio e penetrante. Davanti i suoi occhi il tempo e lo spazio si aprono in profondità.”

È  da condividere sicuramente ciò che Mailis Põld scrive nella nota introduttiva di Fidati dei tuoi occhi – Poesie scelte (1956 -1979), una raccolta di poesie di Kersti Merilaas ottimamente tradotta dalla stessa Põld e pubblicata da LietoColle.

Kersti Merilaas, nata nel 1913 a Narva  , una città estone vicino al confine con la Russia, è da considerarsi una delle più grandi poetesse dell’Estonia e, senza dubbio, una delle voci più calde e appassionate del Novecento.

Autrice di numerose raccolte di poesie fece il suo esordio con con la  raccolta di poesia Maanteetuuled ( I venti della grande strada) dove  rivelò immediatamente il suo talento poetico. Seguirono altre raccolte di poesie importanti: Rannapääsuke (La rondine riparia) nel 1963; Kevadised koplid (I pascoli primaverili) nel 1966; Kuukressid (I fiori di lunaria); nel 1969 e, infine, Antud ja Võetud (Dato e Preso) nel 1981.

Kersti Merilaas fu anche molto attiva nel campo della critica letteraria e della traduzione. Tra gli autori tradotti da lei in estone ricordiamo: Johann Wolfgang Goethe, Georg Christoph Lichtenberg, Günter Eich, Bertolt Brecht, Georg Maurer. Morì all’età di 73 anni a Tallin nel 1986.


La poetessa estone ci ha lasciato l’intero patrimonio del suo universo interiore. Lei ci parla di tutto ciò che lo sguardo è riuscito a cogliere lungo il percorso della sua vita. La perfetta fusione di ciò che vede e di ciò che sente riempie la sua poesia e, a più di trent’anni dalla sua morte, possiamo tranquillamente dire che lei è ancora ben viva in ogni suo verso …

Tristi sono i suoni dell’autunno:/ ho ancora nelle orecchie i versi delle cicogne e/ il gemito delle oche selvatiche a stormi/sotto le nuvole grigie,/ e il fruscio delle foglie ingiallite/ quando viene il vento …/ Nei campi devastati e nei grandi boschi spogli/ iniziò a emettere lamenti: non voglio, non voglio,/ non voglio-o-o!//Ma noi, mia sorellina del cuore, che per decine di volte/ abbiamo visto il ritorno dei fiori, non possiamo certo/ prendere sul serio questi modi da melodramma./Avremmo piuttosto più ragione noi/ di appoggiare la testa l’una sulla spalla dell’altra,/ e di piangere un po’.” (L’autunno).

Un libro intenso, di sicura presa, insomma. E nel quale ognuno può trovare non un compiacimento intellettualistico ma il respiro vivo, intenso, delle emozioni.

Immagini in ordine di apparizione: 1. Copertina del libro; 2. Kersti Merilaas.

lunedì 11 gennaio 2016

La Divina differenza

 




La Divina Differenza, un libro di Silvio Raffo su Maria Luisa Spaziani
di Bonifacio Vincenzi


Nel settembre 2007, nel numero 3 de “Il Fiacre N.9” che allora dirigevo, dedicato a Maria Luisa Spaziani, in un’intervista esclusiva per la nostra rivista rilasciata a Leone D’Ambrosio, a proposito della morte, così la poetessa disse:

Di tutto possiamo parlare perché abbiamo esperienza, meno della morte perché non abbiamo esperienza. Lo diceva Confucio. Io l’aspetto con una certa disinvoltura devo dire, facendo anche finta di essere disinvolta. La morte è soprattutto un’angoscia anticipata che ci viene di non lasciare tutto in ordine, compreso quello che abbiamo scritto che è sempre nelle mani degli editori, dei critici, dei revisori, dei plagiari. Io ho visto tante volte poesie mie passare sotto il nome di altri. Quindi, la morte non è che da considerare un momento in cui si parte per un viaggio senza sapere dove andiamo.”


Noi che siamo ancora qui, sappiamo che quel momento per lei è arrivato il 30 giugno del 2014. Non avrà lasciato sicuramente tutto in ordine e si sarà portata le sue paure e le sue preoccupazioni e come ogni grande poeta non avrà avuto molta fiducia nei posteri.

Di sicuro, però, non le sarebbe affatto dispiaciuto questo libro di Silvio Raffo, La divina differenza – La Musa lirica di Maria Luisa Spaziani (LietoColle). Un'indagine critica esaustiva, viva, palpitante perché sentita profondamente. Basta estrapolare alcuni stralci dal libro, volendo anche a caso, per rendersene conto perfettamente:

Maria Luisa Spaziani sembra testimoniare in modi convincenti e “moderni” la sopravvivenza della musa lirica, la sua legittimità e autorità indiscutibili. La sua opera è la prova più lampante della possibilità di coesistenza di registro alto e leggibilità, dunque, di “tradizione” e comunicazione.


E ancora: “Non esiste, crediamo, poeta italiano del Novecento ( e del primo duemila) che abbia coltivato la funzione del linguaggio definita da Jakobson metalinguistica con tanta dovizia e ricchezza di sfumature autoanalitiche. A Maria Luisa Spaziani, dotata come non si può negare di un “ego” smisurato, interessa approfondire la ricerca del “ perché delle cose” prima di tutto per ciò che la riguarda come io senziente e io poetante.”


Sì, Maria Luisa Spaziani sarebbe stata sicuramente contenta di questo interessantissimo libro di Silvio Raffo.

Immagini in ordine di apparizione: 1. Copertina del libro; 2. Maria Luisa Spaziani; 3. Silvio Raffo

venerdì 8 gennaio 2016

L'isola che canta





Ko Un ovvero il poeta del presente
di Bonifacio Vincenzi


Ezra Pound scriveva che “ certi libri costituiscono un tesoro, un fondamento;  letti una volta, vi serviranno per il resto della vita.” Sicuramente L’isola che canta (LietoColle) del poeta sudcoreano Ko Un è uno di questi. È  un libro bellissimo curato e tradotto con  competenza e  passione da Vincenza D’Urso, docente di lingua e letteratura coreana all’Università Ca’ Foscari di Venezia.

Non rinascerò umano./ Mai più.// Nella mia prossima vita/ mi basterà nascere animale./ Non uno grande./ Mi basterà essere uno piccolo./Persino/ così piccolo da essere invisibile./ Basterà che io sia un’ameba.// Non era questo il mio desiderio, anni fa./ Tornando da umano/non avrei voluto essere uomo, / bensì una donna buona o cattiva che ha perso sette/ dei suoi undici figli.// Ho deciso. Nella mia prossima vita non rinascerò mai più umano.” ( La prossima vita)

Una poesia significativa, questa. La dice lunga sull’uomo e  su quello che di terribile è capace di fare nella vita, nel mondo.  E la dice lunga anche sulle grandi capacità espressive del poeta coreano.

Ko Un nasce nel 1933 durante l'occupazione giapponese in una cittadina della regione settentrionale della Corea e sarà il testimone delle vicende dolorose che il suo Paese dovrà affrontare nell'arco di numerosi decenni: dalla dominazione coloniale, agli orrori della Seconda guerra mondiale, dalla guerra fratricida della Corea del 1950-53 alla divisione del territorio al trentottesimo parallelo dopo la Guerra Fredda, dalle numerose dittature militari per giungere negli anni novanta a testimoniare una "pacifica rivoluzione" che conduce alla guida della Repubblica di Corea come governo democratico e progressista.


Nel 1952, stanco degli orrori visti, trova rifugio nella religione e diventa monaco buddista dedicandosi allo studio della meditazione  Zen con il maestro Hyobong. Viaggia per alcuni anni senza sosta vivendo di elemosina finché nel 1957, insieme ad un altro monaco, fonda il "Buddhist Newspaper" e ne diventa il direttore. Riprende così l'impegno poetico e inizia a pubblicare saggi e poesie.

Nel 1962, deluso ancora una volta dalla corruzione che vige nel clero buddista, decide di abbandonare la vita monastica per riprendere le vesti di laico e lo dichiara sul quotidiano "Hankook Ilbo" con un Manifesto di rinuncia. Per tre anni, dal 1963 al 1966, vive sull'isola Cheju dove insegna gratuitamente coreano e arte in una scuola di carità.

Ko Un ha pubblicato oltre centoventi volumi, tra cui molti volumi di poesia, varie opere di narrativa (in particolare narrativa buddista), autobiografia, teatro, saggi, traduzioni dal cinese classico, libri di viaggi, ecc. Selezioni di sue opere sono state tradotte in inglese (6-7 volumi), spagnolo (4-5 volumi), italiano, francese, tedesco, giapponese, cinese, vietnamita, ceco, bulgaro, svedese e danese.

martedì 5 gennaio 2016

Quaranta citazioni per Anselmo Secòs







La poesia di Daniele Gorret: un respiro unico con voce doppia
di Bonifacio Vincenzi

Anselmo Secòs nacque nel frastuono:/ quello d’ospedale e fuori d’ospedale:/ voci di camici e grida di neonati/ e – appena fuori – d’auto e di passanti./Sarà per questo – per semplice reazione -/ che dal chiasso rifugge a gamba tesa:/ appena sente le urla e i litiganti,/ trova una scusa e corre in qualche bosco/ ( per sua fortuna c’è ancora qualche bosco)/ o si rifugia in camera o in soffitta/(cosa è più bello di stanza e di soffitta?)(…)

Si può partire da qui per cercare di cogliere l’anima e il senso di questa raccolta di poesia di Daniele Gorret, Quaranta citazioni per Anselmo Secòs (LietoColle). Chiaramente è solo un piccolo assaggio in versi del poeta di Aosta ma proprio per lo spirito che anima l’intera raccolta questa poesia ( come tutte le altre) non si può leggere senza la citazione che l’accompagna che in questo caso è di M. Heidegger: “Sapeva tacere: era una di quelle persone con cui si poteva tacere durante una passeggiata.”



E il finale della stessa poesia ci fa capire  perché le citazioni sono così importanti in questo libro:

Sembrano già – di loro, lì da soli-/preludere al momento vasto e forte/ in cui silenzio sarà dòmino e dio;/sarà da solo, avrà Tutto, Completo/ non gli occorrerà che lettera maggiore:/ sarà Silenzio, avrà campo su tutto,/ cancellerà Chiacchiera e Baccano,/ resterà Lui, Re di catacombe,/ Re di Futuro, Re d’ogni giudizio,/ ed Anselmo Secòs a modo suo avrà vinto, celebrerà quieto il cerchio suo che è chiuso.


Quaranta citazioni per quaranta poesie dove il respiro  è unico e la voce doppia e ciò che spicca è la tensione inventiva e una sicura ricerca del vero.