martedì 27 ottobre 2015

Storia d'amore





Daniene Mencarelli, un autore abitato dalla poesia
di Bonifacio Vincenzi

“C’è in noi qualcosa  che nulla sa del tempo e dello spazio e tuttavia, come il filosofo della Città Ideale, è spettatore di tutti i tempi e di tutta l’esistenza: sensi vibranti, passioni nascenti, estasi spirituali di contemplazione, ardori di un amore infuocato. Siamo noi ad essere irreali e la nostra vita cosciente è la parte meno importante del nostro sviluppo. L’anima, l’anima segreta è la sola realtà.”

Questo pensiero di Oscar Wilde ci conduce in profondità, perché  da lì bisogna partire per violare con lo sguardo l’universo intimo di un autore abitato dalla Poesia come Daniele Mencarelli. Ne consegue che il coinvolgimento ovviamente tocca anche la sfera personale di ogni appassionato lettore e questa traversata nel mare impetuoso della passione sancisce, nella lettura, la perfetta unione tra arte e vita.

Storia d’amore è il titolo della raccolta di poesia di Mencarelli. Questo volume è inserito nella collana “Gialla” con la quale LietoColle e Pordenonelegge si propongono di offrire ai lettori un più costante collegamento con la giovane poesia italiana.


Protagonista, come si evince dal titolo è l’amore. Quello che ne scaturisce è un dialogo tra passato e presente, dove il primo viene ad inserirsi con voce chiara nell’indistinto fluire dell’esistenza.

La pagina accoglie un’assenza e colui che scrive tenta di convalidare un legame probabilmente ancora necessario. Mencarelli tenta di sovrapporre per frammenti  un tempo che accolga non tanto ciò che non è più ma soltanto e sicuramente ciò che è stato, nella rivendicazione di un passato effettivo, ma mai colmabile …

Nascosto dalla sigaretta/ cerco qualcosa sul tuo viso,/ magari saperlo cosa di preciso,/ intanto passo ogni lineamento/ ogni tratto da orecchio a orecchio/ da fronte a mento passando per la bocca/ fino al collo liscio e giù alle spalle,/ ma quello che di te non so/ nulla di più riesco a sapere,/ mentre tu con le tue amiche/ a discutere di storie da studiare/ di antichi da conoscere a memoria/ neanche fossero tra noi ora,/ tanto ti è cara la questione/ che vibrano le labbra e il viso/ da dolcezza a fiamma viva/ forza celeste dentro l’iride./ Mi distrae una tosse acre/ un sapore plastico alla gola,/il filtro della sigaretta non si fuma.”


Il percorso poetico mencarelliano in Storia d’amore è caratterizzato dunque da una partecipazione intensa, quasi esagerata, per sostenere quel cammino della mente e del cuore che continua a  trattenersi, volutamente e intimamente, nella tormentata vita di un amore che non ha mai accettato di rinunciare alla meraviglia di ripresentarsi vivo nel ricordo e nella poesia.

martedì 20 ottobre 2015

Frangiflutti






Davide Maria Quarracino:
ritratto di un giovane poeta con anima
di Bonifacio Vincenzi

Questo è il quando, il dove/ sei venuto// e non c’è silenzio/in cui non sai/ avere negli occhi/ le ferite del cammino.”

Profondità, saggezza, frutto di un percorso di vita lungo e sofferto? Niente affatto. L’autore di questi versi non ha cinquant’anni. Il suo sguardo  ha visto meno di una decina di migliaia di tramonti. 

L’autore di questi versi non c’era quando hanno ammazzato Pasolini, né quando Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sacrificarono la loro vita per difendere i valori della legalità. E non c’era neppure quando  hanno abbattuto il muro di Berlino.

Non c’era perché non era ancora nato. David Maria Quarracino si è affacciato al mondo nel 1995. Ha solo vent’anni, quindi. Pare impossibile che lui faccia parte della sua generazione, una generazione senza colpe, smarrita, sempre più svuotata di umanità e di senso, scaraventata nel pieno vortice di un mondo che, improvvisamente, ha deviato il suo corso per allontanarsi da se stesso e diventare velocemente qualcos’altro.



Quello che si intuisce subito è che Quarracino è fuori da questo vortice …

Era un vecchio contadino, troppo/ vecchio per lavorare, che al tramonto/ si stendeva sul granoturco. Aveva la faccia/ attanagliata dalle rughe, la rivolgeva/ al cielo e alle stelle, quando c’erano, e usava/ le braccia da cuscino. Portava una camicia/ lisa, pantaloni e stivali di seconda mano./ Dopo il tramonto tornava a casa poggiandosi/ a un bastone, seguito dal suo cane Ray,/ un randagio sudicio ma affettuoso.// A loro due ho sempre associato la parola bellezza.”

Certo, scoprire questo volto della bellezza così diverso da milioni di immagini senz’anima che ogni giorno i suoi coetanei scaricano per mostrarle a non si sa chi, visto che nessuno più guarda con partecipazione attiva e coinvolta, non solo fa un certo effetto ma spinge anche a riflettere.

Di sicuro c’è una minoranza nella generazione di Quarracino che come lui è fuori dal vortice, disposta a continuare il processo evolutivo delle masse umane che ricevono il testimone dalla generazione precedente, per illuminare il mondo con una visione sì diversa, ma che tiene sempre conto delle informazioni ereditate dalle generazioni precedenti.

A questa minoranza bisogna dare gli strumenti per tentare di arginare  questo  cancro in metastasi che sta attaccando i centri vitali che regolano i rapporti umani.


E credo che il lavoro che Michelangelo Camelliti e  LietoColle a favore di questi giovani vivi nell’anima nel campo della poesia deve essere un esempio da seguire anche in altre discipline. Forse, mai come in questo momento, abbiamo bisogno di una generazione disposta per davvero a salvare il Mondo. O, almeno, a provarci o a crederci.

lunedì 12 ottobre 2015

Sulla tenera pelle






La poesia di Farhad Ali Zolghadr
di Bonifacio Vincenzi


“La magia e il tormento, la contingenza politica e la vocazione assolutizzante di un Medio Oriente sismico e incantato qui vengono condensati e trasmessi con la forza e la pregnanza di una comunicazione poetica direttamente distillata da un presupposto irrinunciabile di misticismo che non è necessariamente di timbro religioso: il misticismo, per Zolghadr, è inesauribile afflato epifanico da vivere umanamente e da infinitamente riconoscere nelle finalità stesse del vivere terreno, sia pure tra miserie e rivelazioni, drammi e amori estatici, desideri e soprassalti, fino a poter porgere al prossimo ( e il più vicino prossimo per il poeta è il lettore) la perenne purezza della sempre insaziata sete di scoperta.”

Queste parole di Rodolfo Tommasi, autore della postfazione al libro di Farhad Ali Zolghadr, Sulla tenera pelle (LietoColle), inquadrano perfettamente il senso profondo e arduo, nei versi del poeta iraniano.

Chiaramente, c’è dell’altro. Un senso di appartenenza forte, intimo che si esprime ripercorrendo le ragioni del cuore …

Ho abbandonato la terra dell’alba, nudo/ nella speranza di vestire un nuovo abito/ una volta giunto alla terra del tramonto.// Avevo portato con me del pane per il viaggio/ e una brocca riempita alla fontana di casa./ Attesi la ultima cena per bere quell’acqua/ e mangiare il tozzo di pane indurito.// Il primo sorso e il primo boccone avevano il sapore/del latte materno e del corpo di mio padre.”

Acqua e pane per tentare di colmare la solitudine e il silenzio, in una vita mai completamente libera, perché costantemente messa a dura prova da quell’intimo richiamo  che non ha catene né mura di prigione, ma uno spazio infinito dove si muovono ombre in un tempo che staziona nel profondo.

Da qui appare arduo tentare di estirpare dall’anima pietà e sensi di colpa. E alla fine si finisce col diventare personaggio e interprete nel grande “spettacolo dell’attore/ che recita la sua parte/ di fronte a se stesso/ unico spettatore/ l’irraggiungibile riflesso/ nel caduco specchio/ dell’immaginazione.”

Una coscienza lunare caratterizza gran parte delle poesie di Farhad Ali Zolghadr, dove la luce diventa pallida, sfuocata, il teatro perfetto, insomma, per una possibilità di sovrapposizione e quindi di scambio fra due diverse dimensioni.


È un modo come un altro per tentare di muoversi in due mondi rendendo evidenti, nel pallore lunare, le similitudini piuttosto che le differenze. Per vivere, solamente per vivere, in poesia, il grande mistero della Vita.

domenica 11 ottobre 2015

Scucita voce






L’inquietudine e il tempo nella poesia di Lina Luraschi
di Bonifacio Vincenzi


“Questo giorno non tornerà più, e chi non lo mangia e non lo beve e non lo assapora e non lo odora, non se lo vedrà offerto una seconda volta per tutta l’eternità. Mai più il sole risplenderà come oggi, ha una costellazione nel cielo, una congiunzione con Giove, con Agosto ed Ersilia e con tutti noi che non tornerà più, mai più, neppure tra mille anni.”

Queste parole vengono pronunciate da uno dei personaggi di quel bellissimo romanzo di Herman Hesse che è L’ultima estate di Klingsor. Sono parole di una profondità straordinaria, vive e necessarie, per aiutarci ad entrare nella poesia e nell’anima di Lina Luraschi, in questa sua ultima raccolta, Scucita voce (Gilgamesh Edizioni).

“La lingua del dolore/arrotola il cielo/scardina le stelle//Siamo chiavi senza porte//Di colore ruggine sfibrata/veste l’attesa/È l’occhio che ode lo strazio!

Siamo chiavi senza porte,dunque, come a dire che nella cecità del dolore i giorni irripetibili, di cui parla Hesse, continuano a disperdersi nel nulla senza essere vissuti.

Partendo dal presupposto che “una poesia è un silenzio ribadito da parole, è formata di parole immolate al silenzio” (Zolla); partendo da questo presupposto, questo viaggio di emozioni nella poesia di Lina Luraschi, diventa “alba di nuovi suoni”, in un tempo disciolto dove il Nulla è l’unico custode di quel Tutto disperso. E, alla fine, solo la Poesia osa violare(ed ha il potere di farlo)  questo Silenzio, questo Nulla…

Il pettine separa gli angoli della memoria/mentre la fuga ruba il sonno/senza palpebre mi sento/di cecità mi bendo/Ombra piegata su un lato/scolpita nel sale giro chiavi di porte/spalancate sul nulla//NON PIÙ AURORE/IL GORGO NE BEVVE LO STAMPO!//Sarò altra lingua/pianto che arrugginisce labbra/amaro frutto di rancida promessa/desiderio di spazio e ladro azzoppato/bevo l’eterno dal mio polso”

Scriveva Evtušenko che “l’autobiografia del poeta sono i suoi versi” e  se è vero, ci aiuta, in questo caso, a risalire alla vita di colei che scrive, al suo sentire, al suo soffrire e al suo gioire. E se leggiamo: “sorveglio il tempo/ che è nelle mani sbagliate”; se leggiamo questo, la relativa impotenza di fronte alle mutazioni, non riguarda solo colei che scrive, ma tutti noi.

La differenza tra un verseggiatore e un poeta è che il verseggiatore parla a se stesso, il poeta a tutti noi. Da qui, appare chiaro  che Lina Luraschi appartiene alla schiera dei Poeti che, al contrario dei verseggiatori, non è mai così affollata.



mercoledì 7 ottobre 2015

Le guerre dei poveri






Raffaele Montesano:
il gioco di contaminazione tra lingue e linguaggi
di Bonifacio Vincenzi


“Ho scelto questo titolo, Le guerre dei poveri, per raccontare una situazione ben precisa: la condizione di lontananza, mentale e concreta, che il popolo lucano ha vissuto e tutt’oggi vive rispetto all’Italia e al mondo.

Mentre scrivevo, avevo ben in mente i versi del poeta Mario Trufelli: “Da noi il mondo è lontano/ ma c’è un odore di terra e di gaggia/ e il pane ha il sapore del grano.”

Ciò che accade nel mondo arriva da noi come fosse un’eco lontana; forse soltanto oggi, con il dilagare dei mezzi di comunicazione di ultima generazione, questa sensazione si è un po’ attenuata, ma comunque è ancora presente.

Le guerre dei poveri sono le mille lotte quotidiane, le beghe di paese, piccole battaglie vinte o perse per conquistare sciocchezze: un metro in più di terra, un mobile nuovo, o semplicemente un po’ di ammirazione in più da parte di qualche compaesano. Niente che abbia a che fare con la storia, quella che incide sull’esistenza collettiva.”

Così chiarisce Raffaele Montesano nella nota introduttiva del suo romanzo, Le guerre dei poveri (Annulli Editore).
E c’è subito da dire che ci troviamo ad un genere di narrativa un po’ diverso da quelli a cui siamo abituati. La struttura lessicale è quella di un italiano contaminato dai vari dialetti di tre regioni del Sud Italia: Basilicata, Campania e Calabria. I punti di riferimento sono le opere di alcuni autori meridionali come Giovanni Verga, Raffaele Nigro, Beppe Lopez. Ma anche non meridionali come Fulvio Tomizza e Pier Paolo Pasolini.



La vicenda narrata è ambientata in un piccolissimo paesino tra i monti lucani, Borgo Nemone, alla fine degli anni settanta. Non vi affannate a cercarlo sulla carta geografica, rimarreste delusi. Borgo Nemone è un paesino immaginario. Raffaele Montesano invita i suoi lettori a concentrarsi sulla storia e a non pensare al paese. Lo fa per tutelarsi, chiaramente. La vita in questo paese è talmente credibile che il rischio di identificazione con alcuni personaggi è molto alto. Merito dell’autore che ha  raccontato una storia dove è riuscito a far apparire miracolosamente sulla pagina il mondo vivo della sua terra. Lo ha fatto con un espediente narrativo molto intelligente dove colui che racconta non è affatto neutrale, ma  guarda, parla, pensa come i suoi personaggi; è uno di loro, insomma. E tutto questo a Raffaele Montesano viene molto naturale perché il grado di appartenenza alla sua terra è altissimo.

Protagonista di questo romanzo è  una lattara

“La lattara si chiamava Rosa. Aveva una quarantina d’anni, un fisico che pareva una donna di città; se non fosse che vestiva sempre alla contadina. Le gambe sottili appena abbronzate, andavano a finire dentro certi zoccolacci grigi di terra. La maglia nascondeva due mennoni enormi, i capezzoli parevano le maniglie per legare i ciucci. In paese dicevano che con quella sorta di tascapano solo la lattara poteva fare …”

Una scrittura, questa di Montesano, che concede alla parola la possibilità di connettersi al patrimonio culturale di un luogo, alla sua memoria, in uno specchio dove il passato e il presente si incontrano per mettere le basi ad un futuro che abbia radici, anima, speranze.

Si potrebbero dire tante altre cose ma questo è un libro da leggere più che da spiegare. Raffaele Montesano è un  giovane narratore che porta avanti una sua idea di letteratura. E questo fatto, di per sé, lo pone già tra gli autori di sicuro avvenire.

lunedì 5 ottobre 2015

Capoverso




Capoverso:
omaggio a Pasolini
di Bonifacio Vincenzi

“Sono quarant’anni che abbiamo perso Pasolini. “Lascia un vuoto incolmabile”, si dice abitualmente così degli scomparsi, ed è una frase spesso un po’ bugiarda. Ma in questo caso è vero: Pasolini non è stato sostituito da nessuno, probabilmente non era possibile. Con lui se n’è andato un modo diverso di intendere e praticare il ruolo dell’intellettuale: non un professionista dell’editoria e delle lettere, ma un “sacerdote”, una persona che si vota all’elaborazione teorica, alla percezione del “senso”, e a queste informa tutte le scelte della sua vita. Inseguendo una idea di coerenza assoluta e sposando quelle scelte costi quel che costi, fino alle estreme conseguenze. Pagando, se necessario, anche con la vita. Di gente così, in Italia, non ce n’è più stata. E ci mancano, infatti, interpreti del nostro tempo capaci davvero di farci cogliere quello che lo sguardo superficiale non vede, di aprirci gli occhi a una comprensione più profonda e più lucida della realtà. “  

Questo è l’inizio dell’intervento di Franco Dionesalvi “Senza Pasolini” che apre il numero 29 della Rivista di scritture poetiche Capoverso, interamente dedicato a Pier Paolo Pasolini, a quarant’anni dalla tragica scomparsa.




Capoverso (Edizioni Orizzonti meridionali) è una rivista attiva da quindici anni in Calabria, una delle poche che è riuscita a sopravvivere alla crisi. Ha in redazione intellettuali di tutto rispetto ma chi conosce le vicende culturali di questa regione, sa che l’anima trainante di questa rivista, a cui bisogna riconoscere il giusto merito, è sicuramente quella del poeta e scrittore Carlo Cipparrone.

Il quadro complessivo che emerge da questo volume di 176 pagine è quello di un lavoro fatto con estrema attenzione e cura. All’intervento di apertura appena citato di Franco Dionesalvi bisogna aggiungere quello di Francesco De Napoli: “Poesia e Letteratura tra vocazione e provocazione. L’impegno educativo, sociale e politico di Pier Paolo Pasolini.”



In pratica, gli interventi di Dionesalvi e De Napoli, introducono i lavori di questo Omaggio a Pasolini. Lavori divisi in sei parti con  in appendice un interessante e significativo Album fotografico.

La prima parte è dedicata alla poesia pasoliniana e si arricchisce di otto interventi rispettivamente di Eleonora Bellini, Giovanni Bianchi, Carlo Cipparrone, Pietro Civitareale, Pino Corbo, Vincenzo Guarracino, Giuseppe Panella, Fulvio Papi.

La seconda parte, invece, è dedicata alla narrativa di Pasolini con interventi critici di Saverio Bafaro, Alessandro Gaudio e Sangiuliano.

La terza parte è dedicata alla saggistica pasoliniana con un breve saggio di Angelo Gaccione: “Pier Paolo Pasolini un intellettuale contro il potere.”
Al cinema di Pasolini è dedicata la quarta parte con interventi di Paride Leporaci, Roberto Villa e Alessandro Zaccuri.

Le ultime due parti di questo numero di Capoverso comprendono Le testimonianze e le Poesie per Pasolini.

Le testimonianze sono di Giuseppe Bilotti (Pasolini insegnante nei ricordi di un allievo); Gian Carlo Ferretti ( Sedici anni di ricordi); Annarosa Macrì ( Pasolini e la Calabria).
I poeti che hanno dedicato una loro poesia a Pasolini sono: Mariella Bettarini, Adele Desideri, Franco Gordano, Gabriella Maleti, Anna Petrungaro, Raffaele Piazza.


Per concludere, è quasi superfluo affermare che questo numero di Capoverso, dedicato a Pasolini, rappresenta un ammirevole sforzo di analisi e sintesi degli aspetti più importanti dell’opera pasoliniana. Un lavoro, insomma, di altissimo livello per contribuire a mantenere vivo il ricordo di uno dei più importanti intellettuali italiani che per mantenere attiva la sua coerenza è andato incontro alla morte.

Immagini in ordine di apparizione: 1. Copertina rivista, 2. Pier Paolo Pasolini, 3. Carlo Cipparrone