martedì 15 dicembre 2015

La mia Spoon River

Tarcisio Damizia e la sua Spoon River
di Bonifacio Vincenzi



Il meraviglioso mondo della poesia e dei poeti!

Secoli e secoli di versi raccolti in piccoli libricini pieni di vita, di
anima, di poesia. Raccolte di poesie indimenticabili come
Romancero gitano di Federico Garcia Lorca; Veinte poemas de
amor y una cancion desesperada
di Pablo Neruda; Ossi di
seppia
di Eugenio Montale; Todesfuge di Paul Celan; Paroles di
Jacques Prevért; Il dolore di Giuseppe Ungaretti; Piedra y cielo
di Juan Ramon Jiménez; Spoon River Anthology di Edgar Lee
Masters, hanno il tempo come loro maggiore alleato perché da
sempre la bellezza e il valore della Grande Poesia non temono i
cambiamenti e superano indenni le varie epoche che si susseguono.
Ha fatto bene, quindi, Tarcisio Damizia nella sua silloge poetica La mia Spoon River,
 edita da LietoColle a fa rivivere, attraverso la
sua personale sensibilità, vagamente l’opera di Masters.
Contrariamente a quelli del poeta americano che erano più di
duecento, gli epitaffi lirici di Damizia sono soltanto trentadue ma
colpiscono per l’accento di emozionante rivelazione anche
nell’amarezza e nell’angoscia di un contesto che necessariamente si apre ad 

una vulnerabilità da non sottovalutare.




Paradossalmente, per parlare di questo libricino, partirei dall’ultimo
epitaffio presente in raccolta, quello intitolato Tarcisio D.,
chiaramente dedicato a se stesso, senza ironia o altri accenti
velatamente esistenziali, ma offerto totalmente alla magia di uno
sguardo capace di far vibrare l’anima:

E mentre … picchiate di rondini, nel cielo già blu della sera.

C’è il passo e il fiato di una dimensione più alta in questo epitaffio
personalizzato capace di svelarci il pensiero, l’anima, la poesia di
una vita vissuta come ognuno dovrebbe viverla e cioè presente a
stesso, nella consapevolezza e nell’emozione di ogni sguardo.
Conviene non aggiungere altro perché questo libro di Tarcisio
Damizia merita di essere vissuto fino in fondo da uno sguardo da
appassionato lettore.

lunedì 16 novembre 2015

Il segreto delle fragole





Il segreto delle fragole, l’agenda poetica del 2016 da regalare a Natale a noi stessi e agli amici più cari
di Bonifacio Vincenzi

Come giustamente scrive G.S. Marden “se un abitante di qualche altro pianeta venisse a visitarci, probabilmente penserebbe che la nostra popolazione è tutta in moto per qualche meta lontana,per qualche altra destinazione, e che il luogo dove per caso vive è semplicemente una tappa. (…) Il visitatore troverebbe pochissime persone viventi veramente in quel momento e in quel luogo. Troverebbe che lo sguardo della massima parte di esse è rivolto a qualche cosa al di là, a qualche cosa ancora da venire.”

Nessuno ha più tempo. Gran parte della popolazione di questo pianeta è in fuga. Tutti corrono. Tutti sono schiavi della propria agenda giornaliera. Imperativo categorico: rispettare gli appuntamenti, costi quel che costi.

Chissà se Michelangelo Camelliti, quando molti anni fa iniziò la pubblicazione dell’agenda poetica Il segreto delle fragole, non lo fece pensando a un modo per favorire un momento raccoglimento, stampando a fianco della nostra pagina degli appuntamenti settimanali,  sempre una bella e significativa poesia.

Comunque, al di là di questo, quello che è importante sottolineare, è che ogni anno l’agenda poetica Il segreto delle fragole ritorna con nuove poesie e nuovi temi.

Il tema de Il segreto delle fragole 2016 (LietoColle) sembra essere stato pensato per risvegliare il cuore: essere generosi. E credo che la riflessione nella breve nota introduttiva sia una buona opportunità per farci comprendere molte cose:

La generosità non è una virtù individuale, ma un dono che entra a far parte della dotazione morale e spirituale di quello che si chiama carattere. È un capitale con cui arriviamo sulla terra, che si è formato prima della nostra nascita e che si alimenta della qualità delle relazioni nei primissimi anni di vita. È influenzata dai Poeti che hanno nutrito il cuore della mia famiglia. Dalle preghiere della mia gente, dai musicisti che amo e ascolto, dai cantastorie nelle feste di paese, dai discorsi e dalle azioni dei politici, dalle omelie dei predicatori. Dai martiri di tutte le resistenze, da chi ieri ha donato la sua vita per la mia libertà di oggi. Dalle generosità infinite delle donne che molte volte hanno messo la fioritura della famiglia a cui hanno dato vita prima della propria – e continuano a farlo. La generosità genera riconoscenza per chi ci ha resi generosi con la sua generosità.

Vivere con persone generose ci rende più generosi – proprio come accade con la preghiera, con la musica, con la bellezza …. Coltivare la generosità produce molti più effetti di quelli che riusciamo a vedere e a misurare. La radice dell’essere generosi è la Poesia.”

Gerald Jampolsky sosteneva che “dare e ricevere sono in verità una cosa sola.” Aveva perfettamente ragione. Essere generosi verso qualcuno è un bene che facciamo a noi stessi prima che agli altri.

Un’altra considerazione importante da fare è che il primo ad essere generoso in questa operazione editoriale è stato proprio l’editore. Il segreto delle fragole anno per anno è stato sempre curato da poeti importanti della scena italiana. Quest’anno Michelangelo Camelliti, con un atto di grande generosità, ha affidato la curatela a quattro giovani poeti italiani: Clery Celeste, Tommaso Di Dio, Giulia Rusconi e Giulio Viano.

Anche per significare simbolicamente i cambi di stagione, ognuno dei giovani curatori ha scritto una nota in corrispondenza delle date in cui convenzionalmente accadono equinozi e solstizi, il 21 di marzo, giugno, settembre e dicembre.



Clery Celeste, aprendo l’equinozio di primavera, così scrive:

Per essere noi stessi, dobbiamo avere noi stessi – possedere, se necessario ri-possedere, la storia del nostro vissuto. L’uomo ha bisogno di questo racconto, di un racconto interiore continuo, per conservare la sua identità, il suo sé.

Questo ci dice Oliver Sacks riguardo il concetto di identità.
La poesia quindi diventa affermazione di noi stessi, ci permette di scendere quei gradini interiori che ci portano nelle profondità più nascoste dell’umano e dell’universale. La lettura di testi altrui è la forma più onesta di umiltà, ci si affaccia all’abisso di qualcun altro e attraverso questa sorta di discesa si trattiene il verso e lo si fa diventare proprio.

Lo si conquista con la pazienza e l’ascolto. Ecco perché, caro lettore, è così importante questo progetto: ogni giorno puoi scendere di un gradino dentro di te con questa torcia di versi nelle mani.


Improntata sull’umiltà dell’ascolto è anche la nota di Tommaso Di Dio al Solstizio d’estate:

Un anno di poesie accompagnerà il lettore; ma cosa è una poesia? Un verso fra i tanti potrà smuovere una riflessione, un sentimento, provocare un rispecchiamento, un ritrovarsi ancora prossimi e vicini ad una parola umana che prima non si conosceva e attraverso cui un volto, una vita, una via si disegnerà nella mente del lettore. La civiltà della poesia passa anche da questa minima, semplicissima, umiltà di ascolto e di partecipazione. L’umano è tale perché vive nelle parole e fin quando sarà in grado di trovare nel linguaggio, sia esso povero o ricco, forte o debolissimo, l’atto fondamentale della propria esistenza. Cosa sia una poesia non è dato saperlo, perché la poesia non è scoperta, atto di appropriazione di una verità data una volta per tutte; ma continua interrogazione e stupore e capacità di ascolto nell’altro di se stesso. Auguro a questo lettore che non conosco, ogni bene e infine la forza di credere in questa ricerca di sé attraverso l’estraneo che arriva alla sua porta.




Giulia Rusconi, invece, apre l’Equinozio d’autunno con una visione disincantata ma aperta comunque alla speranza:

Che la poesia non salverà il mondo è chiaro a tutti, che sia considerata spesso meno del meno di niente è ahinoi evidente, esclusa dai grandi numeri, dalle conversazioni, relegata nello scaffaletto in fondo nelle librerie. Proprio per questo trovo sia un grande regalo poter ospitare la poesia nella nostra vita di tutti i giorni, e portarcela appresso, custodirla come un gioiello. Qualche verso resta impigliato nelle teste, spunta fuori all’improvviso mentre prendiamo l’autobus, mentre facciamo la spesa o quando la sera allunghiamo le gambe sul divano, e ci rincuora, ci consola, ci fa vibrare.

Restarsi dentro / non vuol dire chiudere fuori, / è l’ascolto del mondo, l’apertura, scrive Maddalena Lotter (PordenoneLegge – Lietocolle, 2015): questo nostro intimo legame con i versi non è un passatempo demodé, tutt’altro, è continuare ad avere un occhio vivo su ciò che accade, un orecchio vigile e all’erta che sa ascoltare, soprattutto un cuore che sa ancora accogliere, e fermarsi a comprendere le cose, e, infine, averne cura.

Generosità come saggezza e maturità interiore ma anche come chiamata per armarsi di coraggio e valicare i limiti dell’egoismo è un po’ il senso della nota di Giulio Viano al Solstizio d’Inverno:


Essere generosi: la sfida dell’espandersi, respiro stesso della Creazione.
Si parla di una chiamata, una chiamata a valicare limiti, visibili o invisibili che siano: la barriera del tempo, nel ricordo di chi ha plasmato la nostra vita, prima di congedarsi da questo mondo; la barriera del singolo, nell’azzardo di amare; la barriera della terra e del mare …

Che sia un aprire di braccia verso un Ulisse lacero di guerre o un aprire di ali nel dividere un sogno come si spezza il pane, quest’azione richiede uno smarrirsi, un Solve verso un altro stato, dove non ritroveremo i precisi, rassicuranti confini che ci delimitano e ci identificano.

Dalla vita di ogni giorno al silenzio di un enigma, l’inoltrarsi chiede sempre una fine – doppia fra il qui e l’oltre, come in uno specchio. Coraggio di specchiarsi chiama esterno, esterno chiama ciò che lo attraversa. Terra incognita da guardare negli occhi, costi quello che costi: che sia proprio questo, l’essere generosi, comunque lo si declini?

Come lungo un sentiero di montagna, ognuno dei poeti che leggerete ha deposto il suo sasso, inciso dal suo sentire. Al soffiare del vento delle pagine, sentirete di vele, di onde e di sogni; della morte e di chi chiede il perché; di aneliti leggeri come petali e di sensi straziati. E un ritorno a ciò che era e sarà, verso l’Itaca che dorme nell’anima, attendendo il coraggio di aprire la crisalide.
Buona lettura e buone rotte sempre, a ciascuno di noi.

Sessantatre poesie, numerosi aforismi intorno al tema della generosità,  dei grandi scrittori del passato, foto molto significative, sottolineano la piena legittimità culturale, artistica e profondamente umana de Il segreto delle fragole, un’agenda poetica da regalare a Natale  a noi stessi e agli amici più cari affinché l’anno che verrà sia davvero l’opportunità per un viaggio ideale a favore di una magica avventura dell’anima.

Foto in ordine di apparizione: 1. Copertina de Il segreto delle fragole; 2. Michelangelo Camelliti (al centro); 3.Clery Celeste; 4.Tommaso Di Dio; 5. Giulia Rusconi; 6. Giulio Viano.







lunedì 9 novembre 2015

Solo brevi domande esiliate






Il testo che qui pubblichiamo è  la relazione che ha tenuto  Bonifacio Vincenzi a Villapiana (Palazzo Gentile) durante la presentazione del libro Solo brevi domande esiliate di Griselda Doka, organizzata il 7 novembre 2015 dall’Amministrazione Comunale.


Griselda Doka:
una casa nella Poesia
di Bonifacio Vincenzi        

“Ibn’Arabi racconta come re Salomone lo comunicò alla Regina di Saba introducendola in una stanza che aveva il pavimento di cristallo. La regina lo scambiò per una superficie di acqua e sollevò la gonna per non bagnarla. Quando si accorse che l’acqua non c’era di colpo capì che la realtà è un gioco fra somiglianza e differenza e che il mondo si annienta e si ricrea in ogni istante.” (E. Zolla)
Vale la pena riflettere su questa frase:

La realtà è un gioco fra somiglianza e differenza e  il mondo si annienta e si ricrea in ogni istante.

È risaputo, però, che la realtà, per la gran parte delle persone, è qualcosa di estremamente serio e nessuno ha una propria teoria del gioco da cui attingere. Al massimo  si ha una teoria del comportamento ludico in ragione del fatto che la maggior parte delle persone più che giocare con la realtà preferisce parlarne, lamentarsene, subirla.

Poi ci sono i poeti che la realtà la fanno sulla pagina. Poesia, infatti,  come dice l’etimo, vuol dire fare realtà. Ma di quale realtà si occupano i poeti? Una bella domanda questa. I poeti si occupano della realtà che riemerge da quel silenzio che precede la poesia. Quella che li riguarda, quella che non se n’è mai andata. Quella che è stata vita e continua ad essere vita perché nella poesia presente, passato e futuro non sono affatto separati.

E Griselda? Di quale realtà si occupa Griselda nel suo Solo brevi domande esiliate ( Fara Editore)?

Il libro si apre con una dedica speciale che recita così:

A quei passi solitari e silenziosi

Su quale sentiero si muovono questi passi solitari e silenziosi? A chi appartengono? Da dove vengono? Dove andranno?

Il luogo fisico che Griselda Doka ha scelto e accettato di abitare ha fragili confini e capita spesso che nel respiro dei passi della sua quotidianità, altri passi, altre vite ritornino attraverso il fiato della poesia.

Allora è come vivere in due nello stesso corpo presente in quell’istante che annienta il mondo e lo ricrea. Ma sono due le vite. Due le albe e due i tramonti. Due i soli e due le lune. Due vite nello stesso cuore e nella stessa anima …

Servirebbe un incantesimo di sonno
alla memoria corrosiva
per dimenticare momentaneamente
chi siamo stati
in quell’angolo del mondo
dove congelato è rimasto il volo dell’aquila
troppo alto il cielo
troppo bassa la terra (…), pag.23

O ancora:

Mi aggrappavo alle nuvole
per varcare la valle
rinchiusa nel rancore
e con pupille di bambina
ritraevo scene di vita
che volevo
quel mosaico di nuvole
candide
pure
piene
è tuttora l’unico modello
che mi porto dietro
e man mano completo
mescolando boccate
di libertà
e frammenti di esistenza
in questa parata di respiri trattenuti
che si aggrappano al mio collo
e attendono, pag. 55

Il difficile per lo straniero non è vivere fuori, tra la gente; il difficile è dentro, nel profondo.
Quei passi solitari e silenziosi, a cui Griselda ha dedicato il libro, sono sempre accanto. Quella vita  continua ad esserci con o senza la poesia. Basta un profumo particolare, una folata di vento, il volo di un uccello e tutto improvvisamente ritorna. Allora è come rivivere il passato un’altra volta.
Vita che si ripete, vita che cerca la sua casa nella poesia, nel libro. E di nuovo, forte, risuona la frase dell’inizio:

La realtà è un gioco fra somiglianza e differenza e  il mondo si annienta e si ricrea in ogni istante.

E Griselda Doka lo ribadisce in una delle sue brevi domande esiliate:
che colpa ne ho
che nasco e muoio
dentro il secondo? , pag.65

Alla fine non esiste una storia della nostra vita, esistono soltanto racconti, alcuni luoghi, immagini di noi, dove noi siamo stati: la vita si svolge attraverso l’assenza.
Ed proprio l’assenza la protagonista del libro di Griselda. L’assenza che diventa presenza sulla pagina, nel verso …

C’è sempre un’aria di grande famiglia che accomuna una nazione. La gente che parla la stessa lingua acquista la stessa forma di bocca, le stesse pieghe di espressione. Ci si somiglia per volti, corpi e gesti, per maniere simili di parlare, di camminare, di sospirare.

Un esule, anche se volontario, porta questa sua grande famiglia ovunque vada. Deve imparare a convivere con questa moltitudine invisibile. Convivere con questi passi silenziosi.  Si sta come una foglia sul grande albero dei propri avi. L’albero non si vede ma c’è.

Qual è il tuo scopo?  a questo punto chiederebbe lo scrittore greco Nikos Kazantzakis. Per poi rispondere: il tuo scopo è “lottare per afferrare saldamente il ramo, sia come foglia sia come fiore sia come frutto, perché si muovi, si rinnovi e respiri l’albero intero dentro di te.”

Ed è esattamente quello che fa ogni giorno nella poesia e nella vita Griselda Doka.






martedì 27 ottobre 2015

Storia d'amore





Daniene Mencarelli, un autore abitato dalla poesia
di Bonifacio Vincenzi

“C’è in noi qualcosa  che nulla sa del tempo e dello spazio e tuttavia, come il filosofo della Città Ideale, è spettatore di tutti i tempi e di tutta l’esistenza: sensi vibranti, passioni nascenti, estasi spirituali di contemplazione, ardori di un amore infuocato. Siamo noi ad essere irreali e la nostra vita cosciente è la parte meno importante del nostro sviluppo. L’anima, l’anima segreta è la sola realtà.”

Questo pensiero di Oscar Wilde ci conduce in profondità, perché  da lì bisogna partire per violare con lo sguardo l’universo intimo di un autore abitato dalla Poesia come Daniele Mencarelli. Ne consegue che il coinvolgimento ovviamente tocca anche la sfera personale di ogni appassionato lettore e questa traversata nel mare impetuoso della passione sancisce, nella lettura, la perfetta unione tra arte e vita.

Storia d’amore è il titolo della raccolta di poesia di Mencarelli. Questo volume è inserito nella collana “Gialla” con la quale LietoColle e Pordenonelegge si propongono di offrire ai lettori un più costante collegamento con la giovane poesia italiana.


Protagonista, come si evince dal titolo è l’amore. Quello che ne scaturisce è un dialogo tra passato e presente, dove il primo viene ad inserirsi con voce chiara nell’indistinto fluire dell’esistenza.

La pagina accoglie un’assenza e colui che scrive tenta di convalidare un legame probabilmente ancora necessario. Mencarelli tenta di sovrapporre per frammenti  un tempo che accolga non tanto ciò che non è più ma soltanto e sicuramente ciò che è stato, nella rivendicazione di un passato effettivo, ma mai colmabile …

Nascosto dalla sigaretta/ cerco qualcosa sul tuo viso,/ magari saperlo cosa di preciso,/ intanto passo ogni lineamento/ ogni tratto da orecchio a orecchio/ da fronte a mento passando per la bocca/ fino al collo liscio e giù alle spalle,/ ma quello che di te non so/ nulla di più riesco a sapere,/ mentre tu con le tue amiche/ a discutere di storie da studiare/ di antichi da conoscere a memoria/ neanche fossero tra noi ora,/ tanto ti è cara la questione/ che vibrano le labbra e il viso/ da dolcezza a fiamma viva/ forza celeste dentro l’iride./ Mi distrae una tosse acre/ un sapore plastico alla gola,/il filtro della sigaretta non si fuma.”


Il percorso poetico mencarelliano in Storia d’amore è caratterizzato dunque da una partecipazione intensa, quasi esagerata, per sostenere quel cammino della mente e del cuore che continua a  trattenersi, volutamente e intimamente, nella tormentata vita di un amore che non ha mai accettato di rinunciare alla meraviglia di ripresentarsi vivo nel ricordo e nella poesia.

martedì 20 ottobre 2015

Frangiflutti






Davide Maria Quarracino:
ritratto di un giovane poeta con anima
di Bonifacio Vincenzi

Questo è il quando, il dove/ sei venuto// e non c’è silenzio/in cui non sai/ avere negli occhi/ le ferite del cammino.”

Profondità, saggezza, frutto di un percorso di vita lungo e sofferto? Niente affatto. L’autore di questi versi non ha cinquant’anni. Il suo sguardo  ha visto meno di una decina di migliaia di tramonti. 

L’autore di questi versi non c’era quando hanno ammazzato Pasolini, né quando Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sacrificarono la loro vita per difendere i valori della legalità. E non c’era neppure quando  hanno abbattuto il muro di Berlino.

Non c’era perché non era ancora nato. David Maria Quarracino si è affacciato al mondo nel 1995. Ha solo vent’anni, quindi. Pare impossibile che lui faccia parte della sua generazione, una generazione senza colpe, smarrita, sempre più svuotata di umanità e di senso, scaraventata nel pieno vortice di un mondo che, improvvisamente, ha deviato il suo corso per allontanarsi da se stesso e diventare velocemente qualcos’altro.



Quello che si intuisce subito è che Quarracino è fuori da questo vortice …

Era un vecchio contadino, troppo/ vecchio per lavorare, che al tramonto/ si stendeva sul granoturco. Aveva la faccia/ attanagliata dalle rughe, la rivolgeva/ al cielo e alle stelle, quando c’erano, e usava/ le braccia da cuscino. Portava una camicia/ lisa, pantaloni e stivali di seconda mano./ Dopo il tramonto tornava a casa poggiandosi/ a un bastone, seguito dal suo cane Ray,/ un randagio sudicio ma affettuoso.// A loro due ho sempre associato la parola bellezza.”

Certo, scoprire questo volto della bellezza così diverso da milioni di immagini senz’anima che ogni giorno i suoi coetanei scaricano per mostrarle a non si sa chi, visto che nessuno più guarda con partecipazione attiva e coinvolta, non solo fa un certo effetto ma spinge anche a riflettere.

Di sicuro c’è una minoranza nella generazione di Quarracino che come lui è fuori dal vortice, disposta a continuare il processo evolutivo delle masse umane che ricevono il testimone dalla generazione precedente, per illuminare il mondo con una visione sì diversa, ma che tiene sempre conto delle informazioni ereditate dalle generazioni precedenti.

A questa minoranza bisogna dare gli strumenti per tentare di arginare  questo  cancro in metastasi che sta attaccando i centri vitali che regolano i rapporti umani.


E credo che il lavoro che Michelangelo Camelliti e  LietoColle a favore di questi giovani vivi nell’anima nel campo della poesia deve essere un esempio da seguire anche in altre discipline. Forse, mai come in questo momento, abbiamo bisogno di una generazione disposta per davvero a salvare il Mondo. O, almeno, a provarci o a crederci.

lunedì 12 ottobre 2015

Sulla tenera pelle






La poesia di Farhad Ali Zolghadr
di Bonifacio Vincenzi


“La magia e il tormento, la contingenza politica e la vocazione assolutizzante di un Medio Oriente sismico e incantato qui vengono condensati e trasmessi con la forza e la pregnanza di una comunicazione poetica direttamente distillata da un presupposto irrinunciabile di misticismo che non è necessariamente di timbro religioso: il misticismo, per Zolghadr, è inesauribile afflato epifanico da vivere umanamente e da infinitamente riconoscere nelle finalità stesse del vivere terreno, sia pure tra miserie e rivelazioni, drammi e amori estatici, desideri e soprassalti, fino a poter porgere al prossimo ( e il più vicino prossimo per il poeta è il lettore) la perenne purezza della sempre insaziata sete di scoperta.”

Queste parole di Rodolfo Tommasi, autore della postfazione al libro di Farhad Ali Zolghadr, Sulla tenera pelle (LietoColle), inquadrano perfettamente il senso profondo e arduo, nei versi del poeta iraniano.

Chiaramente, c’è dell’altro. Un senso di appartenenza forte, intimo che si esprime ripercorrendo le ragioni del cuore …

Ho abbandonato la terra dell’alba, nudo/ nella speranza di vestire un nuovo abito/ una volta giunto alla terra del tramonto.// Avevo portato con me del pane per il viaggio/ e una brocca riempita alla fontana di casa./ Attesi la ultima cena per bere quell’acqua/ e mangiare il tozzo di pane indurito.// Il primo sorso e il primo boccone avevano il sapore/del latte materno e del corpo di mio padre.”

Acqua e pane per tentare di colmare la solitudine e il silenzio, in una vita mai completamente libera, perché costantemente messa a dura prova da quell’intimo richiamo  che non ha catene né mura di prigione, ma uno spazio infinito dove si muovono ombre in un tempo che staziona nel profondo.

Da qui appare arduo tentare di estirpare dall’anima pietà e sensi di colpa. E alla fine si finisce col diventare personaggio e interprete nel grande “spettacolo dell’attore/ che recita la sua parte/ di fronte a se stesso/ unico spettatore/ l’irraggiungibile riflesso/ nel caduco specchio/ dell’immaginazione.”

Una coscienza lunare caratterizza gran parte delle poesie di Farhad Ali Zolghadr, dove la luce diventa pallida, sfuocata, il teatro perfetto, insomma, per una possibilità di sovrapposizione e quindi di scambio fra due diverse dimensioni.


È un modo come un altro per tentare di muoversi in due mondi rendendo evidenti, nel pallore lunare, le similitudini piuttosto che le differenze. Per vivere, solamente per vivere, in poesia, il grande mistero della Vita.

domenica 11 ottobre 2015

Scucita voce






L’inquietudine e il tempo nella poesia di Lina Luraschi
di Bonifacio Vincenzi


“Questo giorno non tornerà più, e chi non lo mangia e non lo beve e non lo assapora e non lo odora, non se lo vedrà offerto una seconda volta per tutta l’eternità. Mai più il sole risplenderà come oggi, ha una costellazione nel cielo, una congiunzione con Giove, con Agosto ed Ersilia e con tutti noi che non tornerà più, mai più, neppure tra mille anni.”

Queste parole vengono pronunciate da uno dei personaggi di quel bellissimo romanzo di Herman Hesse che è L’ultima estate di Klingsor. Sono parole di una profondità straordinaria, vive e necessarie, per aiutarci ad entrare nella poesia e nell’anima di Lina Luraschi, in questa sua ultima raccolta, Scucita voce (Gilgamesh Edizioni).

“La lingua del dolore/arrotola il cielo/scardina le stelle//Siamo chiavi senza porte//Di colore ruggine sfibrata/veste l’attesa/È l’occhio che ode lo strazio!

Siamo chiavi senza porte,dunque, come a dire che nella cecità del dolore i giorni irripetibili, di cui parla Hesse, continuano a disperdersi nel nulla senza essere vissuti.

Partendo dal presupposto che “una poesia è un silenzio ribadito da parole, è formata di parole immolate al silenzio” (Zolla); partendo da questo presupposto, questo viaggio di emozioni nella poesia di Lina Luraschi, diventa “alba di nuovi suoni”, in un tempo disciolto dove il Nulla è l’unico custode di quel Tutto disperso. E, alla fine, solo la Poesia osa violare(ed ha il potere di farlo)  questo Silenzio, questo Nulla…

Il pettine separa gli angoli della memoria/mentre la fuga ruba il sonno/senza palpebre mi sento/di cecità mi bendo/Ombra piegata su un lato/scolpita nel sale giro chiavi di porte/spalancate sul nulla//NON PIÙ AURORE/IL GORGO NE BEVVE LO STAMPO!//Sarò altra lingua/pianto che arrugginisce labbra/amaro frutto di rancida promessa/desiderio di spazio e ladro azzoppato/bevo l’eterno dal mio polso”

Scriveva Evtušenko che “l’autobiografia del poeta sono i suoi versi” e  se è vero, ci aiuta, in questo caso, a risalire alla vita di colei che scrive, al suo sentire, al suo soffrire e al suo gioire. E se leggiamo: “sorveglio il tempo/ che è nelle mani sbagliate”; se leggiamo questo, la relativa impotenza di fronte alle mutazioni, non riguarda solo colei che scrive, ma tutti noi.

La differenza tra un verseggiatore e un poeta è che il verseggiatore parla a se stesso, il poeta a tutti noi. Da qui, appare chiaro  che Lina Luraschi appartiene alla schiera dei Poeti che, al contrario dei verseggiatori, non è mai così affollata.



mercoledì 7 ottobre 2015

Le guerre dei poveri






Raffaele Montesano:
il gioco di contaminazione tra lingue e linguaggi
di Bonifacio Vincenzi


“Ho scelto questo titolo, Le guerre dei poveri, per raccontare una situazione ben precisa: la condizione di lontananza, mentale e concreta, che il popolo lucano ha vissuto e tutt’oggi vive rispetto all’Italia e al mondo.

Mentre scrivevo, avevo ben in mente i versi del poeta Mario Trufelli: “Da noi il mondo è lontano/ ma c’è un odore di terra e di gaggia/ e il pane ha il sapore del grano.”

Ciò che accade nel mondo arriva da noi come fosse un’eco lontana; forse soltanto oggi, con il dilagare dei mezzi di comunicazione di ultima generazione, questa sensazione si è un po’ attenuata, ma comunque è ancora presente.

Le guerre dei poveri sono le mille lotte quotidiane, le beghe di paese, piccole battaglie vinte o perse per conquistare sciocchezze: un metro in più di terra, un mobile nuovo, o semplicemente un po’ di ammirazione in più da parte di qualche compaesano. Niente che abbia a che fare con la storia, quella che incide sull’esistenza collettiva.”

Così chiarisce Raffaele Montesano nella nota introduttiva del suo romanzo, Le guerre dei poveri (Annulli Editore).
E c’è subito da dire che ci troviamo ad un genere di narrativa un po’ diverso da quelli a cui siamo abituati. La struttura lessicale è quella di un italiano contaminato dai vari dialetti di tre regioni del Sud Italia: Basilicata, Campania e Calabria. I punti di riferimento sono le opere di alcuni autori meridionali come Giovanni Verga, Raffaele Nigro, Beppe Lopez. Ma anche non meridionali come Fulvio Tomizza e Pier Paolo Pasolini.



La vicenda narrata è ambientata in un piccolissimo paesino tra i monti lucani, Borgo Nemone, alla fine degli anni settanta. Non vi affannate a cercarlo sulla carta geografica, rimarreste delusi. Borgo Nemone è un paesino immaginario. Raffaele Montesano invita i suoi lettori a concentrarsi sulla storia e a non pensare al paese. Lo fa per tutelarsi, chiaramente. La vita in questo paese è talmente credibile che il rischio di identificazione con alcuni personaggi è molto alto. Merito dell’autore che ha  raccontato una storia dove è riuscito a far apparire miracolosamente sulla pagina il mondo vivo della sua terra. Lo ha fatto con un espediente narrativo molto intelligente dove colui che racconta non è affatto neutrale, ma  guarda, parla, pensa come i suoi personaggi; è uno di loro, insomma. E tutto questo a Raffaele Montesano viene molto naturale perché il grado di appartenenza alla sua terra è altissimo.

Protagonista di questo romanzo è  una lattara

“La lattara si chiamava Rosa. Aveva una quarantina d’anni, un fisico che pareva una donna di città; se non fosse che vestiva sempre alla contadina. Le gambe sottili appena abbronzate, andavano a finire dentro certi zoccolacci grigi di terra. La maglia nascondeva due mennoni enormi, i capezzoli parevano le maniglie per legare i ciucci. In paese dicevano che con quella sorta di tascapano solo la lattara poteva fare …”

Una scrittura, questa di Montesano, che concede alla parola la possibilità di connettersi al patrimonio culturale di un luogo, alla sua memoria, in uno specchio dove il passato e il presente si incontrano per mettere le basi ad un futuro che abbia radici, anima, speranze.

Si potrebbero dire tante altre cose ma questo è un libro da leggere più che da spiegare. Raffaele Montesano è un  giovane narratore che porta avanti una sua idea di letteratura. E questo fatto, di per sé, lo pone già tra gli autori di sicuro avvenire.

lunedì 5 ottobre 2015

Capoverso




Capoverso:
omaggio a Pasolini
di Bonifacio Vincenzi

“Sono quarant’anni che abbiamo perso Pasolini. “Lascia un vuoto incolmabile”, si dice abitualmente così degli scomparsi, ed è una frase spesso un po’ bugiarda. Ma in questo caso è vero: Pasolini non è stato sostituito da nessuno, probabilmente non era possibile. Con lui se n’è andato un modo diverso di intendere e praticare il ruolo dell’intellettuale: non un professionista dell’editoria e delle lettere, ma un “sacerdote”, una persona che si vota all’elaborazione teorica, alla percezione del “senso”, e a queste informa tutte le scelte della sua vita. Inseguendo una idea di coerenza assoluta e sposando quelle scelte costi quel che costi, fino alle estreme conseguenze. Pagando, se necessario, anche con la vita. Di gente così, in Italia, non ce n’è più stata. E ci mancano, infatti, interpreti del nostro tempo capaci davvero di farci cogliere quello che lo sguardo superficiale non vede, di aprirci gli occhi a una comprensione più profonda e più lucida della realtà. “  

Questo è l’inizio dell’intervento di Franco Dionesalvi “Senza Pasolini” che apre il numero 29 della Rivista di scritture poetiche Capoverso, interamente dedicato a Pier Paolo Pasolini, a quarant’anni dalla tragica scomparsa.




Capoverso (Edizioni Orizzonti meridionali) è una rivista attiva da quindici anni in Calabria, una delle poche che è riuscita a sopravvivere alla crisi. Ha in redazione intellettuali di tutto rispetto ma chi conosce le vicende culturali di questa regione, sa che l’anima trainante di questa rivista, a cui bisogna riconoscere il giusto merito, è sicuramente quella del poeta e scrittore Carlo Cipparrone.

Il quadro complessivo che emerge da questo volume di 176 pagine è quello di un lavoro fatto con estrema attenzione e cura. All’intervento di apertura appena citato di Franco Dionesalvi bisogna aggiungere quello di Francesco De Napoli: “Poesia e Letteratura tra vocazione e provocazione. L’impegno educativo, sociale e politico di Pier Paolo Pasolini.”



In pratica, gli interventi di Dionesalvi e De Napoli, introducono i lavori di questo Omaggio a Pasolini. Lavori divisi in sei parti con  in appendice un interessante e significativo Album fotografico.

La prima parte è dedicata alla poesia pasoliniana e si arricchisce di otto interventi rispettivamente di Eleonora Bellini, Giovanni Bianchi, Carlo Cipparrone, Pietro Civitareale, Pino Corbo, Vincenzo Guarracino, Giuseppe Panella, Fulvio Papi.

La seconda parte, invece, è dedicata alla narrativa di Pasolini con interventi critici di Saverio Bafaro, Alessandro Gaudio e Sangiuliano.

La terza parte è dedicata alla saggistica pasoliniana con un breve saggio di Angelo Gaccione: “Pier Paolo Pasolini un intellettuale contro il potere.”
Al cinema di Pasolini è dedicata la quarta parte con interventi di Paride Leporaci, Roberto Villa e Alessandro Zaccuri.

Le ultime due parti di questo numero di Capoverso comprendono Le testimonianze e le Poesie per Pasolini.

Le testimonianze sono di Giuseppe Bilotti (Pasolini insegnante nei ricordi di un allievo); Gian Carlo Ferretti ( Sedici anni di ricordi); Annarosa Macrì ( Pasolini e la Calabria).
I poeti che hanno dedicato una loro poesia a Pasolini sono: Mariella Bettarini, Adele Desideri, Franco Gordano, Gabriella Maleti, Anna Petrungaro, Raffaele Piazza.


Per concludere, è quasi superfluo affermare che questo numero di Capoverso, dedicato a Pasolini, rappresenta un ammirevole sforzo di analisi e sintesi degli aspetti più importanti dell’opera pasoliniana. Un lavoro, insomma, di altissimo livello per contribuire a mantenere vivo il ricordo di uno dei più importanti intellettuali italiani che per mantenere attiva la sua coerenza è andato incontro alla morte.

Immagini in ordine di apparizione: 1. Copertina rivista, 2. Pier Paolo Pasolini, 3. Carlo Cipparrone