mercoledì 7 ottobre 2015

Le guerre dei poveri






Raffaele Montesano:
il gioco di contaminazione tra lingue e linguaggi
di Bonifacio Vincenzi


“Ho scelto questo titolo, Le guerre dei poveri, per raccontare una situazione ben precisa: la condizione di lontananza, mentale e concreta, che il popolo lucano ha vissuto e tutt’oggi vive rispetto all’Italia e al mondo.

Mentre scrivevo, avevo ben in mente i versi del poeta Mario Trufelli: “Da noi il mondo è lontano/ ma c’è un odore di terra e di gaggia/ e il pane ha il sapore del grano.”

Ciò che accade nel mondo arriva da noi come fosse un’eco lontana; forse soltanto oggi, con il dilagare dei mezzi di comunicazione di ultima generazione, questa sensazione si è un po’ attenuata, ma comunque è ancora presente.

Le guerre dei poveri sono le mille lotte quotidiane, le beghe di paese, piccole battaglie vinte o perse per conquistare sciocchezze: un metro in più di terra, un mobile nuovo, o semplicemente un po’ di ammirazione in più da parte di qualche compaesano. Niente che abbia a che fare con la storia, quella che incide sull’esistenza collettiva.”

Così chiarisce Raffaele Montesano nella nota introduttiva del suo romanzo, Le guerre dei poveri (Annulli Editore).
E c’è subito da dire che ci troviamo ad un genere di narrativa un po’ diverso da quelli a cui siamo abituati. La struttura lessicale è quella di un italiano contaminato dai vari dialetti di tre regioni del Sud Italia: Basilicata, Campania e Calabria. I punti di riferimento sono le opere di alcuni autori meridionali come Giovanni Verga, Raffaele Nigro, Beppe Lopez. Ma anche non meridionali come Fulvio Tomizza e Pier Paolo Pasolini.



La vicenda narrata è ambientata in un piccolissimo paesino tra i monti lucani, Borgo Nemone, alla fine degli anni settanta. Non vi affannate a cercarlo sulla carta geografica, rimarreste delusi. Borgo Nemone è un paesino immaginario. Raffaele Montesano invita i suoi lettori a concentrarsi sulla storia e a non pensare al paese. Lo fa per tutelarsi, chiaramente. La vita in questo paese è talmente credibile che il rischio di identificazione con alcuni personaggi è molto alto. Merito dell’autore che ha  raccontato una storia dove è riuscito a far apparire miracolosamente sulla pagina il mondo vivo della sua terra. Lo ha fatto con un espediente narrativo molto intelligente dove colui che racconta non è affatto neutrale, ma  guarda, parla, pensa come i suoi personaggi; è uno di loro, insomma. E tutto questo a Raffaele Montesano viene molto naturale perché il grado di appartenenza alla sua terra è altissimo.

Protagonista di questo romanzo è  una lattara

“La lattara si chiamava Rosa. Aveva una quarantina d’anni, un fisico che pareva una donna di città; se non fosse che vestiva sempre alla contadina. Le gambe sottili appena abbronzate, andavano a finire dentro certi zoccolacci grigi di terra. La maglia nascondeva due mennoni enormi, i capezzoli parevano le maniglie per legare i ciucci. In paese dicevano che con quella sorta di tascapano solo la lattara poteva fare …”

Una scrittura, questa di Montesano, che concede alla parola la possibilità di connettersi al patrimonio culturale di un luogo, alla sua memoria, in uno specchio dove il passato e il presente si incontrano per mettere le basi ad un futuro che abbia radici, anima, speranze.

Si potrebbero dire tante altre cose ma questo è un libro da leggere più che da spiegare. Raffaele Montesano è un  giovane narratore che porta avanti una sua idea di letteratura. E questo fatto, di per sé, lo pone già tra gli autori di sicuro avvenire.

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