Raffaele Montesano:
il gioco di
contaminazione tra lingue e linguaggi
di
Bonifacio Vincenzi
“Ho scelto questo titolo, Le guerre dei poveri, per raccontare una
situazione ben precisa: la condizione di lontananza, mentale e concreta, che il
popolo lucano ha vissuto e tutt’oggi vive rispetto all’Italia e al mondo.
Mentre scrivevo, avevo ben
in mente i versi del poeta Mario Trufelli: “Da noi il mondo è lontano/ ma c’è
un odore di terra e di gaggia/ e il pane ha il sapore del grano.”
Ciò che accade nel mondo arriva
da noi come fosse un’eco lontana; forse soltanto oggi, con il dilagare dei
mezzi di comunicazione di ultima generazione, questa sensazione si è un po’
attenuata, ma comunque è ancora presente.
Le guerre dei poveri sono
le mille lotte quotidiane, le beghe di paese, piccole battaglie vinte o perse
per conquistare sciocchezze: un metro in più di terra, un mobile nuovo, o
semplicemente un po’ di ammirazione in più da parte di qualche compaesano.
Niente che abbia a che fare con la storia, quella che incide sull’esistenza
collettiva.”
Così chiarisce Raffaele
Montesano nella nota introduttiva del suo romanzo, Le guerre dei poveri (Annulli Editore).
E c’è subito da dire che
ci troviamo ad un genere di narrativa un po’ diverso da quelli a cui siamo
abituati. La struttura lessicale è quella di un italiano contaminato dai vari
dialetti di tre regioni del Sud Italia: Basilicata, Campania e Calabria. I
punti di riferimento sono le opere di alcuni autori meridionali come Giovanni
Verga, Raffaele Nigro, Beppe Lopez. Ma anche non meridionali come Fulvio
Tomizza e Pier Paolo Pasolini.
La vicenda narrata è
ambientata in un piccolissimo paesino tra i monti lucani, Borgo Nemone, alla
fine degli anni settanta. Non vi affannate a cercarlo sulla carta geografica,
rimarreste delusi. Borgo Nemone è un paesino immaginario. Raffaele Montesano
invita i suoi lettori a concentrarsi sulla storia e a non pensare al paese. Lo
fa per tutelarsi, chiaramente. La vita in questo paese è talmente credibile che
il rischio di identificazione con alcuni personaggi è molto alto. Merito
dell’autore che ha raccontato una storia
dove è riuscito a far apparire miracolosamente sulla pagina il mondo vivo della
sua terra. Lo ha fatto con un espediente narrativo molto intelligente dove
colui che racconta non è affatto neutrale, ma
guarda, parla, pensa come i suoi personaggi; è uno di loro, insomma. E
tutto questo a Raffaele Montesano viene molto naturale perché il grado di
appartenenza alla sua terra è altissimo.
Protagonista di questo
romanzo è una lattara …
“La lattara si chiamava
Rosa. Aveva una quarantina d’anni, un fisico che pareva una donna di città; se
non fosse che vestiva sempre alla contadina. Le gambe sottili appena
abbronzate, andavano a finire dentro certi zoccolacci grigi di terra. La maglia
nascondeva due mennoni enormi, i capezzoli parevano le maniglie per legare i
ciucci. In paese dicevano che con quella sorta di tascapano solo la lattara
poteva fare …”
Una scrittura, questa di
Montesano, che concede alla parola la possibilità di connettersi al patrimonio
culturale di un luogo, alla sua memoria, in uno specchio dove il passato e il
presente si incontrano per mettere le basi ad un futuro che abbia radici,
anima, speranze.
Si potrebbero dire tante
altre cose ma questo è un libro da leggere più che da spiegare. Raffaele
Montesano è un giovane narratore che
porta avanti una sua idea di letteratura. E questo fatto, di per sé, lo pone
già tra gli autori di sicuro avvenire.
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