“Telepatia” di Gian Mario Villalta
Un libro che ti entra dentro
di Bonifacio
Vincenzi
“A cinque anni dall'uscita dell’ultima
raccolta (Vanità della mente, Premio
Viareggio 2011) - racconta Gian Mario
Villalta - credo di avere, se non risolto, approfondito molti dei problemi
formali che mi portavo dietro da tempo. Ne risulta un libro più fruibile, che
entra in dialogo con il lettore. Per me una tappa davvero importante.”
Sta parlando chiaramente della sua nuova
raccolta di poesia, Telepatia, edita recentemente da LietoColle e che in pratica
inaugura la collana di poesia “Gialla Oro”, diretta da Augusto Pivanti.
Telepatia propone 19 poemetti, in circa 150 pagine di versi. Un
percorso poetico che ha attraversato tre anni della sua vita, ma ne è valsa la
pena, perché queste poesie sono un vero e proprio dono per tutti quei lettori
che volessero riconciliarsi con una lettura poetica appagante e, per una volta,
vicina al loro sentire.
Questo libro Villalta lo ha pensato e
scritto per i lettori, quindi, ed è già questa una grande novità nel panorama della poesia italiana dove i
“poeti laureati” scrivono ormai soltanto per gli addetti ai lavori. Lo fanno
per meglio rientrare in quella logica scambista
che mortifica, affossa sempre più la buona Poesia.
Questo suo essere dalla parte del
lettore di poesia, in verità, Villalta lo sta da tempo sperimentando in qualità
di direttore artistico di Pordenonelegge. Il Festival è ormai tra
i più importanti d’Italia e, presentando
sempre poesia ad alti livelli, richiama di anno in anno, un numero sempre più crescente di
appassionati.
Ma torniamo al libro soffermandoci, per
un attimo, su questa poesia:
“L’ho
mai detto, io, ai miei,/ agli amici, agli alberi, al cielo,/ anche quando
davvero potevo,/ a qualcuno ho mai detto: “Sono felice”?/ Mia figlia lo dice
senza pudore,/ senza paura che qualcuno le invidi/ la felicità, senza pietà per
suo padre/ che la stringe in silenzio e se dice “Anch’io”/ poi deve correggere
“in questo momento”.”
I bambini, certo, non hanno paura della felicità tantomeno della
verità. I bambini sono innocenti. Loro ascoltano la pura musicalità
dell’essere. Non indossano maschere sociali e non hanno ancora attraversato
tutti gli sconvolgimenti dati dalla furbizia e dal calcolo che li faranno
diventare adulti.
Come faceva giustamente notare Elémire
Zolla in Archetipi, per gli adulti “la maschera mondana diventa la pelle
del viso. Allora l’idea che essa possa esserci strappata, getta nel terrore;
tutto si affronta pur di non perdere la faccia. (…)” Per poi rafforzare il
tutto con questo bellissimo richiamo:
“In una composizione teatrale di Kantor
gli attori reggono ciascuno un pupazzo inerte. Una delle attrici si mette a
ballare un valzerino grottesco, i pupazzi cominciano a seguirla e ben presto è
come se muovessero gli attori; così gli uomini si fanno trasportare dalle loro
biografie.”
Gli adulti, al contrario dei bambini,
non riescono a disfarsi del pupazzo che li guida, spezzando così una volta per
tutte l’identificazione con la propria biografia. Questo dover essere sempre
ciò che profondamente non si è, questa impotenza di fronte all’istinto di
lasciarsi andare e ascoltare, per una volta senza imbarazzo, la pura musicalità
dell’essere, è la causa che spinge inevitabilmente verso l’imponente esperienza
del dolore.
La poesia di Gian Mario Villalta, che ho
appena citato, è, a mio avviso, una delle più significative della raccolta,
perché meglio fa comprendere la reclusione nella nostra prigione concettuale.
Non ci sono catene o sbarre: è una prigione dalle porte e finestre spalancate.
Evadere è impossibile perché non rientra nelle nostre priorità. La forza
dell’emozione, alla fine, è un grande problema perché spezza la forma consueta
della persona, la rende debole semplicemente perché ha così poca esperienza
della felicità e così tanta del dolore.
Non mi ha sorpreso affatto, quando,
nella nota finale dell’autore, Villalta, ha sentito il bisogno di reprimere
quello che lui definisce una debolezza:
“Imperdonabili le poesie sui figli, lo
so, quasi quanto quelle sulla madre. Però che mi vergogno lo dico già nei
versi, e quindi poi mi pareva più ipocrita secretare quello che avevo con tanta
sollecitudine scritto.”
Villalta ha un nome, un ruolo. Ancora
Zolla: “Nome e forma descrivono le cose, ma prima viene il nome, perché riflette
l’archetipo a cui esso appartiene. Quando una cosa si altera, vuole un nuovo nome proprio, che rifletta
l’archetipo diverso che ormai la regge. Sinonimo di nome è “onore”. Ciò che
lega l’uomo, l’incantesimo sociale che gli è stato fatto.”
Da qui si capisce come sia inevitabile
prendere le distanze per non uscire dall’incantesimo e trovarsi faccia a faccia con se stessi.
Paradossalmente, è più facile rinunciare alla felicità ( che
così poco si conosce) che al dolore (che così tanto si conosce). La ragione ce
la spiega Villalta, in questa poesia:
“Perdere
il dolore/ a volte è perdere tutto. Per questo non rinuncia/ all’umiliazione di
sentirsi dire che non lo vuole./ Adesso sa ancora chi è. Dopo c’è solamente,
/dove dovrebbe/ ricominciare, il niente.”
Gli uomini non rinunciano alla loro
biografia, non sono disposti a perdere loro stessi, per riconquistarsi. Eppure
c’è in ognuno di loro questa sete di tornare a certe serate memorabili, così rare nell’intero percorso di una vita:
“È
una scemenza, va bene, che una giornata è bella/ perché finisce, come un fiore
è bello perché sfiorisce/ e via dicendo, tutto questo mondo con noi dentro/
fatto così, è stupido dirlo, per andarsene, come una sera/ che ricorderemo:
solo uno scemo spera/ di farci una poesia – lo sa chiunque./ A meno che non
sveli perché è vera./O almeno, se non perché, quando succede/ che ogni cosa diventa più preziosa,/ quando il tempo quasi ti
precede/ più veloce di te nell’abbandono,/ quando le cose abbandonano te, le
persone,/ i sogni di quando eri giovane, senza volere abbandonarti o che tu le
abbandoni.”
Ricorderemo sempre, a distanza di
tempo, una serata memorabile, perché nel
momento in cui la vivevi, come scrive sempre Zolla, questa volta, in Aure, “sarebbe stato assurdo
domandarsi il senso della vita, perché stava lì davanti a noi, reso sensibile
in un’aura. La felicità intima è l’evocazione di questi momenti vissuti nel
passato ma mai trascorsi, delineati nella luce limpida, abbagliata dell’interiorità,
più vera di quella del sole.”
“Diciannove poemetti sul vivere e sul
vissuto. Presenze, incontri, dialoghi, intuizioni, riflessioni catturate
nell’arco degli anni, sospese fra la parola poetica e il battito dei pochi
istanti in cui sono affiorate. “ In questa definizione si è voluto collocare, al
momento del lancio, Telepatia, ma il libro va ben oltre, il libro ti entra
dentro, vive con te attraverso i lavori dello sguardo. Il libro fa bene alla
poesia, si riconcilia con il lettore, si offre come specchio per la nostra
anima.
Prima di avviarmi alla conclusione, mi
piace ricordare il poemetto in dialetto
veneto periferico Tra mi e ti – con Andrea
Zanzotto due anni dopo.
“La traduzione – spiega Villalta in
nota – è solo per chi non accede assolutamente ai versi in dialetto. E per
questo è pensata in una sua autonomia lessicale e semantica, pur rimanendo una
traduzione.”
“(…) Sol che tra mi e ti, in te un parlar che l’à la dh e la
th,/ come i nostri veci( drento ‘sta nova/ comunion- distanzha, diventadhi i
stessi veci),/ co’ quela zh che là ne à portà/ a parlar a strazhabaloò, a
strazhamarcà, co’l dialeto/ e cò l’italian, par ore e ore par très de le
parole/ de tute le lingue de la poesia. (…)” (Solo tra me e te, in una lingua
con la dh e con la th,/ come i nostri vecchi ( ora, in questa diversa/
comunione – distanza, diventati gli stessi vecchi)/ con quella zh che ci ha
portati/ a parlare a più non posso, (gratis – quasi – in quantità) con il
dialetto/ e con l’italiano, per ore e ore attraverso le parole/ di tutte le
lingue della poesia. (…)”
Un omaggio al mai dimenticato maestro e
alla sua casa, un modo per guardare, ancora una volta, il grande spettacolo
della natura, da quella finestra nuova che Zanzotto era riuscito a realizzare
nella vecchia casa di suo padre che, tra l’altro, era un buon pittore di paesaggi ed era capace
di far apparire miracolosamente sulla tela quello che gli occhi del grande poeta vedevano davanti a
lui. Quella finestra, “purezza inestinguibile”, per un unico sguardo di poeta, che
rimanga lì “ dentro la mare de un temp
robà al passà,/ robà al present, un temp fora dal temp.”
Immagini in ordine di apparizione: 1.
Copertina del libro; 2. Prdenone legge (panoramica sul pubblico); 3. Elémire Zolla; 4. Gian Mario Villalta; 5.
Andrea Zanzotto.