sabato 4 luglio 2015

Fermata del tempo








Stelvio Di Spigno:
il personale sentire di un poeta autentico
di Bonifacio Vincenzi



“Parlo di età: adesso, allora. Ma quale è la mia vera età di oggi, se le contiene tutte, nessuna consumata, nessuna maturata, tanto che non riesco a seguire il trapasso all’una all’altra? Mi pare di vederle tutte allineate, parallele e discordi, cavalli malamente assortiti, aggiogati allo stesso carro.”
Così scriveva la scrittrice napoletana Clotilde Marghieri nel suo romanzo più famoso, Amati enigmi,  pubblicato da Vallecchi nel 1974 e vincitore del Premio Viareggio.
Gli amati enigmi toccano anche il poeta napoletano Stelvio Di Spigno che al contrario della Marghieri sembra voler fare delle distinzioni tra un’età e l’altra. Questa sua Fermata nel tempo (Marcos Y Marcos), nel peccato del cambiamento, dove il lutto non si addice alla corsa del tempo,  è, in realtà, una fermata nella Poesia, che è l’unica  e fedele custode di tutte le età.
Stelvio Di Spigno è un poeta autentico, un poeta che merita un posto di riguardo nel panorama della poesia italiana contemporanea.
Vogliamo parlare della sua sensibilità? Una sensibilità sofferta, messa a dura prova dalla durezza di un mondo che riconosce a stento il respiro di un’umanità sempre più confinata in  una dimensione quasi inaccessibile …
C’è sempre un anno che precede, con una voce corta/ che ti dice che è giusto partire, rimescolare/ le frasi, fare a pugni coi desideri e le intenzioni,/ e c’è sempre un anno nuovo, nel quale è doloroso/ tornare, rivedere volti appesantiti, anche se di poco,/ perché poco  il mondo si è spostato, giorno per giorno,/ mentre pensavi che tutto passasse a rilento./ E ora eccomi qua, nella stanza come nuova,/ tra pareti che non parlano più, e che a stento,/ se potessero parlare, mi riconoscerebbero …” (La voce corta).
La vita, in fondo, è questo immaginare di andare avanti, questo far finta di credersi cambiati. In realtà sono solo i corpi che invecchiano: dentro non si cambia. Se si cambiasse solo in minima parte, l’esistenza non confinerebbe con gli abissi dei rimpianti.
Poeti come Di Spigno, con intelligenza e sensibilità, tormentano il loro personale sentire, per richiamare la Poesia, l’unica casa edificata vicina ai panorami dell’ eternità. E tutto questo “privilegio” ha un prezzo molto alto pagato con la moneta della sofferenza …
“Il ricordo mi distrugge eppure/ ascoltare le campane/ altrove mi riporta/ alle calle della vecchia chiesa,/ a mio zio che le metteva sull’altare/ senza lasciarmi la mano …” (sottrazione, 4)
Un’altra fermata nel passato mentre un’aura si veste di parole e, per dirla con Umberto Fiori, che ha scritto la prefazione al libro, “il male di vivere è là, solido e trionfante, ma la poesia sa affrontarlo a occhi asciutti, sa addirittura cantarlo.”


mercoledì 1 luglio 2015

Il dialetto della vita






Il testo che qui pubblichiamo è  la prefazione di Bonifacio Vincenzi alla silloge poetica di Pasquale Montalto, edita recentemente da Apollo Edizioni. Il volume, tra l’altro, è il sesto della collana “Chatila” e contiene una doppia silloge: Il dialetto della vita di Pasquale Montalto e  Il Sogno La Vita La Bellezza di Domenico Tucci. 



Pasquale Montalto condivide il dialetto della vita con le parole dell’amore
di Bonifacio Vincenzi


Sono uomo:duro poco/ ed è enorme la notte./ Ma guardo verso l’alto:/ le stelle scrivono./ Senza intendere comprendo:/ sono anche scrittura/ e in questo stesso istante/ qualcuno mi sillaba.”
In questi pochi e significativi versi di Octavio Paz sta tutto l’operare del poeta. C’è dell’altro,  però. L’Uomo e l’Universo, per esempio. L’uno di fronte all’altro, così spaventosamente  diversi. Il limite e la dimensione senza limiti. Il tempo limitato della vita e, dall’altra parte, il tempo che si annulla perché diventa relativo.
Poi c’è la poesia che recupera questo strappo raccontando  l’istante a suo modo, tenendo conto della ragione,  ma andando  oltre, cogliendo nel silenzio il senso ma anche ciò che viene prima e dopo il senso.
Chi conosce Pasquale Montalto sa del suo rapporto intimo profondo con la poesia. Scrivere per lui è un atto di fede, è un impegno irrinunciabile,  è scavalcare le chiusure,  è battere i tasti dell’amore e della pace.
D’altronde, ci sono due tipi di persone al mondo: quelli che vivono rivolti verso la morte e quelli che vivono rivolti verso l’amore. Montalto ha scelto di vivere rivolto verso l’amore. Ma l’amore è possibile viverlo solo qui e ora. Non si può amare nel passato né nel futuro. Si può amare solo qui e ora.
La poesia è un atto d’amore, coglie l’attimo del qui e ora. Per Pasquale Montalto nel cuore e nella poesia anche il dolore non è mai definitivo e opprimente ma può mutare e trasformasi improvvisamente  e in quell’attimo che arriva,/ dove la vita cambia registro,/ col fiore del ciliegio/ e il sapore del melograno,/ sull’odorosa brezza della pigna,/ si rinnova la ragione del vivere.”
L’uomo consapevole e il poeta sanno che l’inferno in questo mondo non smette mai di ardere, non si è mai al sicuro dal male e dall’angoscia, ma è  proprio in questi momenti che magica speranza,appare la poesia,/ che puntuale filtra nello spazio nero,/ non per scriverla, ma per essere ascoltata,/ e per seguire il tracciato di una parola,/ che non è più parola al vento,/ ma sincerità di cuore …”
Nel dialetto della vita la condivisione è la parola più importante. L’amore, per avere senso, bisogna poterlo condividere attraverso la poesia, attraverso i gesti semplici del dare. Condividere è una delle grandi virtù spirituali.
Il poeta Montalto condivide ciò che è, condivide ciò che fa. Condivide l’Amore, condivide la Bellezza, condivide la Speranza, condivide il suo continuo e immutato Stupore. Lo fa attraverso la parola vera, bella, libera, giusta.
Nel dialetto della vita l’amore è nel volto delle madri, è nel risveglio  di ogni giorno ed è sempre capace di tutelare una vita senza ego, una vita umile, una vita semplice, una vita in cui Dio e l’Umanità possano vivere. Nel dialetto della vita il sentire è capace di armonizzare il giusto modo di pensare.
Scriveva Edmond Jabès che “esistere è aprirsi progressivamente alla condivisione. È condividere la vita con la vita, la gioia con la gioia, il dolore col dolore, la morte con la morte. Insomma, l’istante con l’istante.”
Pasquale Montalto condivide una visione della vita nella sua totalità. L’accetta per quella che è anche se si riserva, attraverso la poesia, di cogliere ed elevare tutte quelle manifestazioni capaci di riscaldare il cuore.
C’è luce nei suoi versi. Ci sono i profumi, ci sono i colori, c’è l’aura nei luoghi, nelle persone e nelle cose. Alla fine ciò che lui profondamente vuole, senza eccessive pretese, è che il posto in cui vive diventi più vivo è più bello, più in sintonia con il suo cuore.
Il sentiero che lui percorre è semplice ed è facile e tutto ciò che gli occorre per vivere bene e per vivere meglio, è questa suo profondo rapporto con la vita e con la poesia perché, come lui stesso confessa in questi versi: “senza pensieri, senza pretese,/ sono gli anni/ del dialogo con me stesso./ E ho allontanato il mio designato destino/ per costruire e aprire la via/ alla grande ricchezza/ e al potere di immaginare/ un domani diverso./ Sono pronto a seguirti/ e amarti in verità e libertà,/ mia essenziale leggerezza,/ centro dell’anima ispirata, SE’,/ che nella giocosità della gioia/ravvivi di fantasia il mio cuore felice.


domenica 28 giugno 2015

Francesco, nel silenzio







Elena Bartone
Con Francesco, per sentire la Poesia
di Bonifacio Vincenzi



“Ho pochi giorni ancora, poi devo rientrare in ospedale. Sarà quello che sarà. Attendono altri accertamenti; ma io attendo Lei, meglio attendo Lui. Vorrei che fosse un incontro tra vecchi amici, amici che non si vedono da molto, da moltissimo tempo. E pure hanno sempre desiderato di abbracciarsi, contando gli anni, e le stagioni, e i giorni …”
Così scrive David Maria Turoldo nel suo ultimo, intenso, bellissimo libro: “Il dramma è Dio.” È il canto ultimo, la sua morte è imminente ed enorme è il carico di sofferenza che quotidianamente l’accompagna. Ma Padre Turoldo definisce tutto questo “uno stato di grazia, forse il mio tempo migliore”. Lui ha sempre colloquiato con Dio, a volte in modo impetuoso, a volte con tenerezza, come si fa con l’amico del cuore, senza mai preoccuparsi di nascondere le proprie paure, o la rabbia, o l’angoscia, o la gioia …
Bene, il fatto che Elena Bartone abbia scelto una poesia di David Maria Turoldo come “finestra” da cui affacciarsi allo straordinario mondo di Francesco, nel silenzio, ultima sua raccolta di poesie edita da LietoColle, mi ha fatto molto riflettere.
La poetessa ha già, come giustamente sottolinea Martha L. Canfield nella prefazione al libro, “un punto di riferimento fondamentale, una guida sicura e amorosa, annunciata fin dal titolo: Francesco d’Assisi.” È con il santo degli umili che la Bartone dialoga. Perché, allora, ha scelto questa poesia di David Maria Turoldo, per aprire il suo libro? Una poesia, senza dubbio,  molto bella e significativa:
“Io non ho mani / che mi accarezzino il volto, / (duro è l’ufficio/ di queste parole /che non conoscono/ amori) /non so le dolcezze /dei vostri abbandoni: /ho dovuto essere /custode /della vostra solitudine./ Sono /salvatore/ di ore perdute.”
Le risposte potrebbero essere tante. La povertà come condizione della propria ricerca spirituale sicuramente li accomuna. C’è una differenza: Francesco ha scelto la povertà, Padre Turoldo, invece, è nato in una famiglia talmente povera da indurlo a pregare Dio perché i genitori morissero prematuramente, per liberarli dalla miseria e dalla sofferenza in cui versavano.
Una preghiera d’impeto, come spesso gli capitava, a cui non poteva credere realmente perché lui sapeva bene che l’unica strada per poter “sentire” Dio è quella in salita, quella in cui la sofferenza la fa da padrona.
Non so nulla della vita di Elena Bartone. Quello che so di certo è che lei è una poetessa di talento. La Poesia, quella vera, in questo suo ultimo libro regna sovrana. E per essere brava come lei lo è, nella vita avrà di sicuro molto sofferto.
Senza sofferenza non si può sentire la Poesia, come non si può sentire Dio.
La sofferenza fa vagare senza meta. E non avendo una meta da seguire  tutte le mete sono quelle giuste: “Non ci saranno direzioni al nostro vagare,/ l’unica direzione sarà Dio.”, canta la poetessa.
E dov’è Dio? Di sicuro non può essere fuorioltre.
David Maria Turoldo: “Qualcuno ha interrogato tutte le creature chiedendo se per caso erano loro il Dio che cercava; ma ognuna di loro aveva risposto che no, non erano loro il suo Dio. Solo dopo un’affannosa e interminabile ricerca, egli era giunto a scoprire che il Dio che cercava lo aveva dentro di sé, lo portava nel fondo della sua coscienza; gli era dentro, « più intimo del suo stesso intimo»”
Elena Bartone: “Sui monti calabri/ era calato il silenzio./ La sera si annunciava tra gli abeti./ Cercavo una risposta ai miei perché,/ alle voci che un tempo/ arrivavano da lontano.// Non rincorrevo l’altrove, ma la vita/  nei suoi rivoli di enigmi e sobbalzi/  di felicità.// Rimescolavo le carte dei giorni,/ ma i conti non tornavano./ Tanto silenzio e nulla più.// In quel silenzio tutto verde/ho sentito il futuro/ camminare al mio fianco.” (Sui monti calabri)
Padre Turoldo ed Elena Bartone. Non so se sono io a sbagliare, ma vedo una forte vicinanza tra loro due. Anche nel modo di far poesia.
Dio abita dentro e in quel Silenzio colorato di verde. Non sarà il lavoro dello sguardo né le quattro verità inculcate dalla Ragione, tanto meno una Fede sempre in lotta con il dubbio, ma quell’attimo di Meraviglia colto sui monti calabri; dove il grondante e trepido silenzio, per un attimo, ha cancellato tutto; a far sospirare Dio senza corpo, senza volto.
Sì, Francesco d’Assisi è una guida sicura.  Fa bene la poetessa a rivolgersi a lui per continuare il suo vagare verso il suo risveglio in  Dio. Ma è anche  un modo come un altro per richiamare la Poesia, che non sempre è disponibile a venire. Dio non può essere fuorioltre perché , per dirla ancora con Padre Turoldo, è “sempre più simile a noi, all’ultimo di tutti noi: un Dio umile, debole, sperduto, appassionato e pietoso, venuto a vivere di ogni nostra infermità. Sempre meno Dio dell’onnipotenza, sempre più Dio della misericordia e del perdono.” E credo che Elena Bartone questo lo sappia e anche molto bene.








sabato 27 giugno 2015

LE BAMBINE DI CARROLL








IL MISTERO DELLA VITA E DELLA MORTE NELLA POESIA DI BONIFACIO VINCENZI
di Lucia Gaddo Zanovello


Nella nuova opera poetica di Bonifacio Vincenzi, Le bambine di Carroll (LietoColle 2015), sono numerosi i versi che trovo memorabili. Questo perché essi sono suggestivi di riflessioni utili a soffermarsi ancora una volta sulle questioni fondamentali dei processi d’identificazione e di riconoscimento di sé e degli altri, sul fine ultimo dell’esistere e sulle inquietanti domande da porre al mistero della vita e della morte.
È proprio il testo di apertura ad apparire quasi programmatico: “Nessuno sceglie la salita”, già questo titolo dichiara lo sforzo immane ma necessario, richiesto a ciascuno per esistere, e nel secondo testo: “Credimi quando ti parlo”, ove si dice  “il primo pianto nel mondo/ non lo dimentica nessuno”, vi è tutto il dramma della solitudine e dell’isolamento traumatico che vive il neo-nato all’umanità.
Nella raccolta ricorre più volte, insieme a quello dell’apparenza, il tema dell’assenza, “Siamo qui nel tuo sangue,/ gridano gli assenti” (“Nei secoli dei secoli”, p. 34), ma questi ‘diversi’ assenti, così ‘vivacemente’ operosi, io credo di individuarli in coloro i quali ci hanno preceduto, essi sono dunque al contrario, presenti, per il fatto che li portiamo con noi nel nostro DNA e nel nostro sangue, anzi essi si trovano addirittura ‘a gridare’ in noi la loro presenza, perché desiderosi di proseguire, attraverso noi, con la stessa passione che li aveva animati o con quella che non avevano saputo o potuto esprimere durante la loro esistenza, sulla strada dell’amore.
Per esistere in autentica presenza dobbiamo mantenere la guardia, avverte infatti B. Vincenzi  in “Nei secoli dei secoli” e in “Pane di sole”, dato che il nostro procedere tende a farsi troppo spesso, per pigrizia, stanchezza o per insensibilità, “un camminare di assenti”.
Nel precipizio della vita e per essa, afferma il Poeta, “Siamo la corsa che ci rende/ ciechi” e nella corsa poi “chi distingue più/ il durevole dal passeggero”, talora è difficile riconoscere il vero dal falso, vedere con chiarezza ciò che è realmente importante, ma è in questa asserzione: “lo chiedo a te che sei me”, che si legge nella prima poesia e in questo passaggio della seconda (“Credimi quando ti parlo”): “lasciami essere ciò che non vuoi che sia”, che vengono offerte al lettore, per l’appunto, indimenticabili meraviglie, in sintesi, lucide perle da conservare nel cassetto delle necessità.
Il trasporto emotivo verso l’altro e verso il mondo, si comprende,  è l’unica via di accesso possibile per la nostra presenza reale, l’unico varco al muro della solitudine, rimedio all’egoistica retrocessione di sé, unico contrasto alla morte e suo contravveleno.
Il nostro processo di riconoscimento inizia solo quando ci riconosciamo nell’altro e nella nostra appartenenza al mondo, “attenti alle bambine di Carrol/: Portano sempre/ di là dello specchio” (p. 21), avverte l’Autore con una messa in guardia che in realtà è un invito.
Lo specchio dà di noi un’immagine falsata, e si legge ancora in “Pane di sole”, “lo spettacolo di sé/ rimane in sospeso”.
Se mi fermo a guardarmi, in altre parole, non imparo nulla di me, anzi, c’è forte il rischio che il rimando narcisistico congeli il mio evolvere; davanti allo specchio osservo un’immagine solitaria e priva di spessore. Capita di frequente che chi non ci vede da tempo stenti a riconoscerci, se a noi a volte questo dispiace, è perché sentiamo forte che in realtà siamo fatti dello spirito eterno che ci caratterizza e che rimane in sé di una intatta freschezza immutabile, è soltanto la nostra transitoria corporeità a trasformarsi di continuo, nelle età e per gli eventi che incontra.
L’identità è un processo di consapevolezza di sé che sta al di là delle apparenze, che mette l’anima in continuo e profondo mutamento solo in rapporto ai propri simili, anzi, soprattutto in rapporto ai propri dissimili.
Per questo sarebbe un errore ‘fidarsi’ delle immagini riflesse dagli specchi ed è necessario invece fare il balzo di Alice per stabilire delle relazioni. Si deve fare il contrario di ciò che appare ragionevole perché l’apparenza è ingannevole, bisogna andare oltre, verso l’altro, che è la salvezza della nostra identità, come noi lo siamo della sua, e lo si deve fare senza paura.
Proprio perché “Ha leggi feroci il tempo/ e noi andiamo, incatenati/ alla nostra assenza” (p.36), sostiene Bonifacio Vincenzi, tornando sul tema sopra ricordato del pericolo di passare dal mondo da assenti, la partecipazione emotiva e l’amore sono l’unico modo per essere liberi e presenti al mondo e per rendere liberi e presenti gli altri e solo uno specchio che rifletta un interiore me migliore è quello che riflette anche un mondo più accettabile.

martedì 7 ottobre 2014

"M 121" - Una storia intrigante

Una giovane e ricca rampolla dell'alta società, con un futuro radioso e qualche conflitto famigliare la cui vita viene completamente stravolta quando l'uomo che ama viene rapito da una potente organizzazione criminale. La via per salvarlo solo una: M. Un romanzo che scava impietoso nei sentimenti umani, fino alle profondità dei dubbi più angoscianti: cosa siamo disposti a perdere per poter riabbracciare la persona a cui più teniamo, quanto siamo disposti a cambiare.


Sara Belotti, giovane bergamasca classe 1993, scrive da quando ha memoria e il suo sogno più grande è quello di riuscire a raggiungere il cuore delle persone attraverso questa sua passione. “M121 è nato da una canzone. Stavo passeggiando ascoltando una brano dedicato ad un personaggio di un anime. Nella mia testa si è creata un’immagine. Era così bella che ho dovuto correre a casa a descriverla. Più mettevo nero su bianco quell’immagine, più si aggiungevano particolari. Era appena nata la mia prima scena. Mi piaceva così tanto che pensai fosse uno spreco lasciarla così, senza una cornice intorno. E fu così che inventai tutta la trama di M121”. Sara Belotti ha le idee molto chiare sul suo romanzo: “Reputo M121 una storia coinvolgente, emozionante, intrigante, a volte commovente e in alcuni punti anche ironica e divertente. Ritengo che sia una storia che potrebbe interessare principalmente un pubblico di adolescenti e di giovani adulti, e non per forza solo del gentil sesso. Sarò di parte, ma per me è stato impossibile non affezionarmi a ognuno dei personaggi. Spero che riescano a ritagliarsi un piccolo spazio nel cuore di ognuno dei miei lettori”.

Kymaera Edizioni ha tra i suoi obiettivi quello di dar voce ai giovani talenti della narrativa italiana, cuore pulsante del futuro editoriale di questo Paese. Sara Belotti è uno di questi. Ulteriori Informazioni

http://www.kymaeraedizioni.it

lunedì 29 settembre 2014

ERRANZA E DINTORNI

                                                                                                                                                                                                                                   










“ERRANZA E DINTORNI” DI FLAVIANO PISANELLI

di Bonifacio Vincenzi





Flaviano Pisanelli, Erranza e dintorni, Oxybia éditions



Scrive Edmond Jabès:

L’errante, nel dipendere dalla strada, non testimonia che le sue catene. Di questa solitudine che parla a sé per raggiungere la solitudine dell’altro, la parola è il varco e l’ áncora.

Da questa profondità anche l’errante si trova a recitare una parte, è costretto, in un certo senso, a dipendere da un copione. Anche la sua è una finta libertà e deve constatare, suo malgrado, che gli ampi spazi che si aprono davanti a lui non rendono giustizia al suo anelito di libertà e sviluppano una dipendenza che lo spinge in una solitudine ancor più vasta dove le persone, i luoghi e le cose passano comunque. Si rimane soli, si è soli.

Quando poi l’errante è anche un poeta il discorso si fa ancora più complesso, ancor più affascinante perché la poesia, alla fine, rende giustizia alla verità e ciò che viene dalla pagina è la vita così com’è, come è stata e come sarà.

Il verso non mente mai. E la parola è sì il varco come afferma Jabès ma anche l’áncora che tiene legati alla vita che alla fine, sul piano dove la diversità sparisce, è la stessa vita che consumiamo tutti.

Questo libro di cui vi parlo è uscito in Francia, bilingue, ed unisce, in un certo senso, i lettori di due culture diverse. Ma che è un libro di poesie, di una poesia che ha scelto di percorrere i sentieri dell’inquietudine, i sentieri dell’interrogazione ma anche e soprattutto i sentieri della propria appartenenza: Erranza e dintorni (Oxybia éditions) di Flaviano Pisanelli, che ha vinto, tra l’altro, il Premio Letterario di Calabria e Basilicata 2013.





Soprattutto dintorni, sottolineerebbe Pisanelli come a dire che l’estensione del tema trattato custodisce in qualche modo il senso e il valore di uno stupore, di una meraviglia che solo la poesia riesce a scoprire nel profondo dando a volte delle risposte inaspettate.

Risulta, alla fine, fin troppo evidente ciò che qui diventa il paradosso dell’errante in cui i legami ribadiscono la loro forza attrattiva, dettano legge al cuore, al pensiero, all’anima, accompagnano il cammino da perfetti compagni di viaggio.

Il varco e l’áncora, dunque, dove voci lontane cercano il loro spazio nel verso in un esclamativo troppo sentito per esplicitare una finzione sostenuta soltanto da ragioni espressive.

E come ritornano intensi gli istanti bruciati dal tempo in questi versi che abitano nella casa-libro di Pisanelli:

Vivo e muoio nello spazio di una sillaba

rivivo in un sorriso adulto la neve materna di Montefeltro l’esclamativo dialettale che non torna.

Quanto dura il tempo della memoria!

Erranza e dintorni per cogliere quasi una rivelazione in questi due versi:

I miei piedi non sono una radice ma un solo stare incerto fra due passi

Qui c’è tutto l’universo Pisanelli. In ogni sua poesia si percepisce, a volte in modo chiaro, altre volte in modo molto vago questa sua doppia natura: una che lo spinge verso l’erranza, l’altra che comunque non riesce ad evadere dalla dimensione autentica dei legami che ininterrottamente crea.

…un solo stare incerto fra due passi … dove il centro è zona di fuga nel senso che la fuga stessa, alla fine, si mantiene nei paraggi.

Mi fermo un attimo ed apro una parentesi brevissima. Qualche tempo fa, per pubblicizzare in Calabria l’incontro con Flaviano Pisanelli e il suo libro scelsero un’ immagine molto significativa:un deserto e dei passi di un viandante che in pratica non ha punti di riferimento. C’è solo deserto e la prospettiva di un vagare senza fine.

Questa immagine rappresenta in modo mirabile l’erranza.

Ma non potrebbe mai rappresentare totalmente l’erranza intesa da Pisanelli perché mancano i dintorni.

E nei suoi dintorni c’è poco, pochissimo deserto. Nei suoi dintorni ci sono molte oasi con molta acqua e molti paesaggi, molti momenti lontani da una solitudine paziente che sa aspettare il poeta.

Pisanelli è un uomo che vive intensamente tutto ciò che attraversa. Ma è proprio nei suoi spazi di solitudine che la poesia lo raggiunge per mettere in scena un universo per il poeta.

In fondo si tratta di un rituale per macchiare una pagina e recuperare, attraverso quei segni che hanno il potere di parlare dal silenzio tracce di vita dal fertile oblio tanto caro a Jabès, momenti di libertà autentica nei dintorni, anche, della Solitudine, madre autentica di tutti i poeti.

D’altronde, scrive ancora Jabès, “ non sono mai stato se non colui che la vita mi ha consentito di essere. Così io esisto perché sono stato plasmato dal meglio e dal peggio, da tutto quello che ho amato o rifuggito; da tutto quello che ho acquisito o perduto; plasmato, secondo dopo secondo, dallo scorrere lento della vita.”

È una lezione, questa di Jabès, troppo profonda per non riguardare poeti autentici come Flaviano Pisanelli che hanno la capacità di un chiudere un libro e accommiatarsi dai propri lettori con questi quattro versi che non proverò neppure a spiegarvi ma che vi invito a viverli nel breve e immenso respiro che li accoglie:

Gli orizzonti si aprono lenti:

una tendina scucita dal vento.

Credevamo di aver dimenticato dio

perché eravamo felici.














giovedì 25 settembre 2014

SHAKIRA




LA VITA DELLA POPSTAR COLOMBIANA RACCONTATA


DA UN AUTORE CALABRESE



di Lucia Gaddo Zanovello









“Nessuno può dire con certezza da dove venga un figlio” afferma Bonifacio Vincenzi nel suo ultimo libro, Shakira, uno sguardo dal cuore, Kymaera Edizioni, 2014, “né suo padre, né sua madre” lo possono dire. Abbastanza spiazzante l’esordio, ma ciò che l’Autore sostiene è una lucida verità, se ogni genitore riflettesse attentamente su questo assunto, molti problemi legati alla genetica e all’accettazione ‘non’ incondizionata del figlio, sarebbero superati. E di sicuro ci sarebbe più amore nel mondo, più disponibilità alla comprensione reciproca, all’incontro con chi è diverso da noi nel senso più ampio dell’aggettivo. Nel caso di Shakira, si evince da queste pagine, vi è stato sempre da parte dei suoi genitori (già loro stessi un bel mix etnico!) la più grande disponibilità ad accogliere con favore ogni tipo di germoglio artistico diverso nella figlia: “tutti si sarebbero prodigati a far diventare reale la sua storia” attesta l’Autore del libro che sostiene pure: “i bambini non sognano, vivono le loro fantasie”.

Nel deprecabile caso, invece, di genitori che non comprendono o non gradiscono le attitudini dei figli: “Poi viene detto loro che tutto questo è sbagliato, che quello che esiste è solo la realtà, e tutto, in loro, lentamente muta.”

Quale prezioso insegnamento possono trarre genitori, ma anche figli contrariati dagli adulti nelle loro aspirazioni, già fin da questa prima pagina del libro, tutti comprendono a quali malefici equivoci o nel più favorevole dei casi, a quale stagnazione può portare una visione chiusa nel pregiudizio.

Si tratta di un condensato di pedagogia, di etica e filosofia dove non manca l’intensità della prosa poetica.

Ecco come Vincenzi definisce l’evento del due febbraio 1977, giorno della nascita di Shakira: “Lei stava arrivando dal liquido silenzio del mar dei Caraibi.”…“con il vagito già nella gola”. E più avanti: “Un incendio era il cielo, mentre la luna e le stelle bruciavano quel buio, fino all’alba.”

L’attesa di conoscere quale sia il proprio destino, la fatica di leggere dentro la riflessione su se stessi, il senso di smarrimento di chi è chiamato a scegliere, facendo i conti difficili con i propri limiti e con le proprie sconfitte vengono così descritti: “Niente si ascolta chiaramente dal silenzio oscuro e misterioso delle ore”…che “diventano passato, diventano nulla.”

“Solo la scrittura può osare dar voce a questo silenzio.”… “Scrittura di poesie e di canzoni.”

E una macchina da scrivere fu il primo regalo del padre di Shakira alla figlia, convinto che lei avrebbe desiderato diventare una scrittrice.

Quando Shakira ha dieci anni, nel racconto si legge questa motivazione a giustificare l’esclusione dal coro scolastico della ragazzina: “canta come una capra”. Ci sarebbe da discutere parecchio su questo episodio e Vincenzi, sia pure per cenni, non risparmia di deplorare la scarsa lungimiranza e maggiormente l’insensibilità di taluni ‘maestri’ di musica, ma enuncia un’altra fondante verità educativa, valida non solo per la vicenda umana di Shakira, ma anche per ciascuno di noi: “D’altronde il destino ha più di un modo di intervenire per guidare il percorso dei predestinati e certi ostacoli, a volte, per quanto fastidiosi e demoralizzanti, risulteranno poi tanto dolorosi quanto opportuni”. “A lei questa sofferenza servì a forgiare il carattere più che a indebolirlo”… “Tutte le finestre della vita si affacciano sul mondo. È una questione di scelte. Se decidi di tenerle chiuse, vedrai poco o nulla. Se invece decidi di aprirle, tutto diventa possibile.”

Notevoli risultano anche le pagine sul ‘superamento dei limiti’, per scriverle l’Autore chiama a testimoni Kafka (con il racconto del guardiano della porta di Davanti alla legge) e più avanti Gibran con il suo dettato per vivere la vita pienamente, riassunto in “slancio, sapere, lavoro, amore”.

Si deve amare ciò che si fa, di qualunque cosa ci si occupi. Di Shakira dice Vincenzi: “i suoi limiti non erano corpi estranei separati da lei ma peculiarità al suo completo servizio”. E una perla di saggezza per i lettori: “La fortuna non ama i disperati, non ama i senza speranza. La fortuna è molto sensibile verso i sognatori. E Shakira è una sognatrice disciplinata.”

“Semplicità e determinazione” risultano essere le punte di diamante di questa artista e di far vivere e rivivere il bambino che c’è in noi, è il consiglio che leggiamo diffusamente fra le righe di questo libro.

“Alla fine pare che la bambina in lei non solo sia sopravvissuta, ma che sia anche totalmente al timone della sua vita” dichiara l’Autore.

Ecco come Bonifacio Vincenzi parla, stavolta in poesia, dei movimenti della danza, particolarmente di quella tribale del Tamil Nad che, combinata con altri stili, caratterizza le movenze della cantautrice colombiana: “Nel transitorio corpo vivente, due correnti lottano. Una vuole salire verso il cielo, verso/ l’anima, l’altra scendere verso la terra, verso la materia./ La lotta è il ritmo/…Un piede sulla terra, l’altro nel vuoto”… “Siamo fatti di fango e di sogni…/ Siamo fatti di libertà e di schiavitù/…siamo fatti di luce e di tenebre/…Siamo fatti di amore e di odio…”… “Vecchie moltitudini precipitano ogni giorno, giovani moltitudini risalgono ogni giorno…”… “L’uomo vince e perde ogni giorno”… “Dio è saggio…Dio è folle”… “Niente fa paura.. Tutto fa paura…/ La paura è il ritmo”…”Corpi si muovono…immergendosi l’uno nell’altro…/L’incendio è il ritmo.”

E possiamo visualizzare nitidamente l’incontenibile figuretta della popstar colombiana sprigionare energia nella sua danza liberatoria e sensuale.

Più avanti Vincenzi dice ancora della danza tribale: “Buoni e malvagi si muovono all’unisono” … “Il mondo c’è ma è lontano. Le differenze ci sono ma sono lontane./ Potere della musica. Potere del canto. Potere del ritmo…”. Versi che rinnovano davvero la magia seducente della musica tribale e anche la forza galvanizzante delle movenze cadenzate della popstar, il magnetismo del ritmo dei concerti di Shakira.

Non manca l’apporto del significato di alcuni miti a consolidare quanto su amore e morte viene detto dall’Autore: “il mito dell’amore ‘di due anime in una, per sempre’ di Filemone e Bauci o dei gemelli Castore Polluce; si spiega come ogni dualismo, fra Terra e Cielo, concreto e astratto, bene e male, sia in realtà lo slancio irresistibile verso l’Uno.

Magia avvenuta anche per gli Album gemelli di grande successo di Shakira, pubblicati in lingua spagnola e in inglese alla fine del 2005 con le sue venti canzoni migliori, Oral Fixation, voll. 1 e 2, che trattano della ‘fissazione orale’ nel bambino, ma anche nell’adulto, riassumibili nelle quattro azioni privilegiate secondo l’artista colombiana: mangiare, cantare, ridere e parlare. E quanto della nostra vita e della nostra comunicazione fra esseri passa realmente attraverso la nostra bocca…

A proposito della famosa frase che fu detta a commento di Cent’anni di solitudine di Gabriel García Màrquez, universalmente considerato un capolavoro letterario, vale a dire che quel libro sembra scritto da un bambino di otto anni, Bonifacio Vincenzi commenta così: “…se è vero che l’uomo è un essere pensante, è altrettanto vero che le sue grandi opere vengono compiute quando non calcola e non pensa, quando va oltre i confini dell’Io e ridiventa come un bambino ancora ignaro di se stesso.” E afferma: “La poesia di sicuro accoglie tutte le risposte alle domande che l’Umanità continua a farsi. Le persone, però, sono troppo distratte da futili ambizioni per interessarsi minimamente al proprio destino.”

Sembra paradossale, ma purtroppo è veramente così, si perde di vista l’essenziale realizzazione del proprio destino, disperdendo energie e giornate in mille rivoli annoiati che portano a nulla.

Un’ulteriore occasione di riflessione la incontriamo verso la fine del libro dove, discorrendo della recente maternità di Shakira (già peraltro in attesa del secondo figlio) che forse è portata a vedere in tale evento capitale nella vita di ogni donna solo speranza e positività, il nostro Autore, a margine del pensiero di Georg Groddeck, ammette forse amaramente: “…un altro vincolo fatale legherà per sempre la madre al bambino. Un vincolo sorretto da un profondo senso di colpa. Una madre, in fondo, è una culla e una tomba, è colei che dà la vita perché si muoia.”

È un altro modo di vedere e di pensare la maternità, sul quale anch’io mi sono soffermata a lungo, tanto che rimango fervente sostenitrice dell’adozione di bimbi già nati, atto forse più illuminato che generarne di nuovi, ma sèguita anche a confortare e a sorreggere l’alternativa a beneficio della continuazione naturale della specie, una mia personale convinzione, che in qualche modo potrebbe legarsi al concetto esposto in esordio da Bonifacio Vincenzi e cioè l’asserzione che ‘nessuno sa da dove venga un figlio’.

Sono persuasa, infatti, che in qualche modo ‘si scelga’ di venire al mondo; dunque, rifiutarsi da parte di una donna di dar luogo a nuove vite, almeno per il periodo in cui ella è in grado di darne il transito, diventerebbe una rinunzia a collaborare con lo spirito che opera per l’eternità dell’amore, sarebbe d’ostacolo alla spinta misteriosa di ‘un altro’ che desidera ardentemente di intervenire nel mondo, vorrebbe dire rigettare la possibilità di farsi strumento di intromissione e di cooperazione di nuove creature fra noi.

Shakira, uno sguardo dal cuore è un libro scritto certamente per celebrare un’artista, nondimeno, come si arguisce, è un’occasione importante per parlare di molto, per suggerire domande e risposte cruciali sulle quali riflettere.

Poetica e insieme filosofica risulta anche la conclusione del libro: “Ad un certo punto arriva il momento in cui comprendi che è tutto finito. La parola vuole andarsene… Per un libro, però, è un po’ diverso. Sai che devi chiudere, trovi il modo migliore per farlo. La parola si ferma, tu te ne vai, ma tutto ciò che è stato” e in questo caso, ‘che è scritto’, tuttavia, “rimane per sempre.”