Bonifacio Vincenzi racconta, in liriche, la
tragedia del Bataclan
di Marco Testi
Stavano lì
ad assaporare
la vita
ignari che la
normalità
fosse una
colpa
La tragedia di Bruxelles richiama l’altra tragedia del
novembre parigino. Poche armi rimangono agli uomini di buona volontà
per far sì che queste storie, lungi
da tramutarsi solo in paura, divengano nuova linfa. L’arte, la musica, la poesia,
il racconto. Così fa lo scrittore Bonifacio Vincenzi con la sua raccolta di
poesie interamente dedicata ad uno dei luttuosi eventi parigini, quello
accaduto durante un concerto allo storico teatro Bataclan e costato 93 giovani
vite. E “Bataclan” (LietoColle, 59 pagine) s’intitola questo commosso ricordo
del sacrificio di tanti ragazzi inconsapevoli che la loro storia sarebbe
diventata Storia con la maiuscola, una tragica Storia che non finisce di
scriversi da sola sui libri scolastici e che parla di violenza folle. Il tempo
dell’uomo che si contrappone a quello dell’eternità e a quello della storia è
uno degli elementi fondanti di questa raccolta che si presenta suddivisa in
quattro sezioni: “Un attimo prima degli spari”, “Vittime”, “Il sorriso di Marie”,
“L’abitudine della vita”. Attraverso le maglie di questa triplice dimensione
del tempo, passa il dolore.
Quando esso è vicino a noi, troppo vicino, non è
dicibile. La vicinanza lo rende urticante, inarticolabile, muto. Il poeta non
tenta infatti alcuna razionale spiegazione, cerca semplicemente di mettersi
dentro l’evento, capire con lo spirito e non con la testa.
Sono giorni in cui
la testa da sola non può spiegare il mondo, a riprova che i meccanismi
razionali non bastano di per sé a dare risposte. Un mondo che come dice una
delle brevi liriche, è morto in “questa notte”. La consapevolezza dolente che
una vita è irrisarcibile di per sé, e lo sprofondamento nell’enigma di ciò che
sta accadendo è un’altra delle dimensioni di “Bataclan”. Sembra che l’ansia di
vita dei giovani di ogni tempo lasci una impalpabile presenza collettiva e
nello stesso tempo ricollegabile ad ognuno:
Di quei
ragazzi rimane
l’impazienza
di una giovinezza
mai scomparsa
Perché il grande motivo del tempo rimane dentro ogni
verso, sposandosi con la richiesta, in questi giorni mai così sentita, di un
perché.
Per loro e per tutti gli anni
che chiederanno conto al
tempo
sarà primavera in novembre.
La violenza della storia non impedisce un lento,
inesorabile riaggallare della riflessione sulla nostra realtà. Ritornano i
grandi interrogativi – come piantine che si fanno largo sulle fessure del
cemento – sulla nostra vita, sulla sua possibilità di allargarsi a comprendere
l’altro in una comunione che forse rappresenta il vero antidoto alla brutalità
di quello che nel “dopo” chiamiamo storia. Fino a giungere in una visione che
va oltre la dimensione di ciò che chiamiamo tempo:
Siamo ciò che la vita ci consente di essere
e abiteremo
tutti nella stessa assenza, non più case
né conti in banca, un fremito soltanto
di anime vaganti.
Rimane fortissima la consapevolezza del rischio della
poesia in questo momento: l’inutilità, la retorica. Vincenzi prende di petto
questo rischio, andando a chiedere ragione ai modelli un tempo amati e che ora
sembrano grondare impotenza e dolore, rivolgendosi ad esempio al grande
Prévert, chiedendogli ragione dei ragazzi “che si amano”, immortalati dai
versi del francese, e che ora muoiono
“nell’abbagliante splendore/ della loro
libertà”. La necessità della vita, che continua in altri giovani e che è
più forte e fatale della violenza, è l’altra grande componente di questo ciclo
lirico. Dopo il tempo, dopo il dolore, ecco, alla fine, ciò che è
inestinguibile, ciò che non potrà mai essere fermato, perché oltre l’oggi nuovi
domani, e nuove vite, verranno, a portare nuove e più salde speranze:
Credono di
averti uccisa
non sanno
dell’altra vita
non sanno che
vivi
nel sogno dei
bambini.
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