lunedì 25 aprile 2016

Lettera a D.






 La scrittura poetica contaminata di Alessandro Assiri
di Bonifacio Vincenzi


Lo spirito del disordine. La guerra eterna di quello che hai fuori e di quello che hai dentro. Viaggi inventati, sentieri ripetuti mille volte. Il raffreddarsi dei sorrisi. La noia sempre in agguato. La violenza di certi gesti. L’inferno e il paradiso. I piccoli fallimenti delle passioni. E ancora, le malinconie, il vuoto, le pause, i sogni neri, i vizi, l’esilio, l’ascolto del silenzio …

È un libro di Poesia, amici. E ciò che esprime la buona poesia ci riguarda sempre. C’è un autore: Alessandro Assiri. C’è un titolo:  Lettera a D. C’è un editore: Lieto Colle.

E, soprattutto, prima di iniziare il viaggio,  c’è un’avvertenza ai lettori molto significativa:

D. (come iniziale di tutti i Destinatari) scandisce il tempo assoluto in una contemporaneità quotidiana, che sembra avere nella pratica delle manie e dei vizi l’unica via d’uscita dal banale. Un testo imbrattato e sporco come solo può essere una scrittura contaminata, una narrazione che usa la forma epistolare per rincorrere una sequenza di atti emotivi che hanno potuto (e saputo) eccedere anche rispetto alle proprie illusioni, ai propri miraggi. Tutte le volte che mi capita di ripensare a D., sento che – a forza di aspettare – le rivoluzioni accadono sempre senza di noi; forse è per questa ragione che ho provato a fermare “quella” energia vitale, perché non andasse dispersa nell’astratto delle figure che attraversano l’incompiuto del “mio/nostro” tempo comune.”

… una narrazione che usa la forma epistolare per rincorrere una sequenza di atti emotivi che hanno potuto (e saputo) eccedere anche rispetto alle proprie illusioni, ai propri miraggi.

Non è grandiosa questa rincorsa effettuata da Assiri? Non è quella che facciamo anche noi ogni giorno in certi momenti in cui vediamo emergere dai nostri pensieri tutto ciò che abbiamo voluto perdere in un supremo atto di assoluta salvaguardia?

Lettera a D. è un libro da leggere perché segna un movimento, un passaggio tra zone d’intensità differente in un tempo non più misurabile o regolabile. È un transitare tra gli strati di quella Vita che riconosciamo come nostra. Un cercare di ricominciare su un altro piano ciò che realmente non si potrà più ricominciare.

Magia della Poesia! Magia del Silenzio che parla!

ti ritraggo meglio in aprile/ in uno dei nostri inferni moderatamente soleggiati/ coi piccoli fallimenti delle passioni raccontati come vita leggendaria./ Potevo sentire tutto il tuo struggimento per le cose inutili/ per i labirinti in cui da sempre ti ritrovi/ per l’ossessione che coltivi da anni per il cinema tedesco/ e per il mio immaginario che da sempre tratti come ospite malato o come/ sradicato soccombente alla Bernhard/ (di cui ti vanti sempre di possedere quasi tutto)./ Stendo grandi quantità di colore per la lista dei tuoi interpreti/ per i manifesti delle tue scene interiori/ per fermare i tuoi strilli sulla tela e i pantaloni a fiori che ti alzavano il culo/ quando qualcuno ti aveva immaginato femmina inventandosi un mondo.” (A D. Che ha imparato a restar vivo)

Imparare a restar vivi per, alla fine, potersi dire:

Ogni tanto mi illudo che esserci ti sottragga a un sortilegio/ poi mi accorgo che tu non mangi quasi mai per fame/ tu mangi per durare e a volte cali come sipario nei teatri.”

 LietoColle


lunedì 11 aprile 2016

Bataclan


Bonifacio Vincenzi racconta, in liriche, la tragedia del Bataclan
di Marco Testi



Stavano lì
ad assaporare la vita
ignari che la normalità
fosse una colpa

La tragedia di Bruxelles richiama l’altra tragedia del novembre parigino. Poche armi rimangono agli uomini di buona volontà
per far sì che queste storie, lungi da tramutarsi solo in paura, divengano nuova linfa. L’arte, la musica, la poesia, il racconto. Così fa lo scrittore Bonifacio Vincenzi con la sua raccolta di poesie interamente dedicata ad uno dei luttuosi eventi parigini, quello accaduto durante un concerto allo storico teatro Bataclan e costato 93 giovani vite. E “Bataclan” (LietoColle, 59 pagine) s’intitola questo commosso ricordo del sacrificio di tanti ragazzi inconsapevoli che la loro storia sarebbe diventata Storia con la maiuscola, una tragica Storia che non finisce di scriversi da sola sui libri scolastici e che parla di violenza folle. Il tempo dell’uomo che si contrappone a quello dell’eternità e a quello della storia è uno degli elementi fondanti di questa raccolta che si presenta suddivisa in quattro sezioni: “Un attimo prima degli spari”, “Vittime”, “Il sorriso di Marie”, “L’abitudine della vita”. Attraverso le maglie di questa triplice dimensione del tempo, passa il dolore. 

Quando esso è vicino a noi, troppo vicino, non è dicibile. La vicinanza lo rende urticante, inarticolabile, muto. Il poeta non tenta infatti alcuna razionale spiegazione, cerca semplicemente di mettersi dentro l’evento, capire con lo spirito e non con la testa. 

Sono giorni in cui la testa da sola non può spiegare il mondo, a riprova che i meccanismi razionali non bastano di per sé a dare risposte. Un mondo che come dice una delle brevi liriche, è morto in “questa notte”. La consapevolezza dolente che una vita è irrisarcibile di per sé, e lo sprofondamento nell’enigma di ciò che sta accadendo è un’altra delle dimensioni di “Bataclan”. Sembra che l’ansia di vita dei giovani di ogni tempo lasci una impalpabile presenza collettiva e nello stesso tempo ricollegabile ad ognuno:

Di quei ragazzi rimane
l’impazienza di una giovinezza
mai scomparsa

Perché il grande motivo del tempo rimane dentro ogni verso, sposandosi con la richiesta, in questi giorni mai così sentita, di un perché.

Per loro e per tutti gli anni
che chiederanno conto al tempo 
sarà primavera in novembre.

La violenza della storia non impedisce un lento, inesorabile riaggallare della riflessione sulla nostra realtà. Ritornano i grandi interrogativi – come piantine che si fanno largo sulle fessure del cemento – sulla nostra vita, sulla sua possibilità di allargarsi a comprendere l’altro in una comunione che forse rappresenta il vero antidoto alla brutalità di quello che nel “dopo” chiamiamo storia. Fino a giungere in una visione che va oltre la dimensione di ciò che chiamiamo tempo:

Siamo ciò che la vita ci consente di essere
e abiteremo tutti nella stessa assenza, non più case 
né conti in banca, un fremito soltanto 
di anime vaganti.

Rimane fortissima la consapevolezza del rischio della poesia in questo momento: l’inutilità, la retorica. Vincenzi prende di petto questo rischio, andando a chiedere ragione ai modelli un tempo amati e che ora sembrano grondare impotenza e dolore, rivolgendosi ad esempio al grande Prévert, chiedendogli ragione dei ragazzi “che si amano”, immortalati dai
versi del francese, e che ora muoiono “nell’abbagliante splendore/ della loro libertà”. La necessità della vita, che continua in altri giovani e che è più forte e fatale della violenza, è l’altra grande componente di questo ciclo lirico. Dopo il tempo, dopo il dolore, ecco, alla fine, ciò che è inestinguibile, ciò che non potrà mai essere fermato, perché oltre l’oggi nuovi domani, e nuove vite, verranno, a portare nuove e più salde speranze:

Credono di averti uccisa
non sanno dell’altra vita
non sanno che vivi
nel sogno dei bambini

domenica 10 aprile 2016

Note di passaggio






Poesia come ricerca del Sé autentico nell’opera di esordio di Cesarina Vegni
di Bonifacio Vincenzi


Da sempre ho paura./ Così lascio sbiancare il viso, accelerare il polso. Poi inspiro fin dentro/ la gran cassa del mio torace e punto lo sguardo sul quotidiano:/ Nord,Sud. L’ago inutile gira su se stesso.// E se mi lasciassi scivolare nella mia paura? Non opporre mai più il/ corpo al corpo Ecco... s’immerge, gira con la corrente, cambia il suo/ verso, si allunga e si raccoglie nello scorrere e poi riemerge dopo il/ frastuono delle rapide// sulla superficie ferma della luce.” (Autobiografia)

L’autobiografia in versi che apre quest’opera di esordio della milanese Cesarina Vegni, Note di passaggio, edita da LietoColle e inserita nella prestigiosa collana I giardini della Minerva, diretta da Maurizio Cucchi, ci deve in qualche modo far riflettere.

Dall’alto della sua competenza Maurizio Cucchi, nella prefazione, coglie molto bene il senso e l’anima di questo libro:

“Cesarina Vegni – scrive Cucchi - compie in questi testi una ricerca del sé più autentico, una ricerca condotta con discrezione, per un bisogno di onesta ricomposizione estetica di un quadro di vita dalle varie sfaccettature e sfumature. Si muove essenzialmente alla scoperta di un fondo di verità nel reale, oltre la scorza della routine, ed è una scoperta che le suggerisce il bisogno, poi, di testimoniarne di dar forma alle impressioni che l’hanno attraversata.”


Ma “il Sé, in quanto tale, - scriveva René Guénon – non è mai individualizzato: non può esserlo perché viene sempre considerato dotato degli attributi di eterno e di immutabile che sono necessari all’Essere puro, perciò non è suscettibile di alcuna particolarizzazione che lo renderebbe “altro da sé” … Di fronte al Sé tutti gli stati della manifestazione si equivalgono rigorosamente e possono quindi venir considerati allo stesso modo …”

In Cesarina Vegni il Sé autentico,  pur rimanendo sempre identico a se stesso, riesce a trasparire, nella profondità della sua ricerca, anche attraverso le molteplici trasformazioni del suo mentale. È sempre lì, immutabile, eterno mentre fuori tutto scorre …

La nota di passaggio è lo sguardo sul paesaggio/ che scorre, sul gesto umano accennato: un odore,/un’esitazione, una tonalità del giorno. La nostra vita transita veloce per luoghi che ci appaiono/ uguali./ Siamo in un mondo dove il linguaggio/ non suscita stupore. Ciascuno si rifà a una casta, riti/ uguali si ripetono. E ogni casta/ non pare diversa dalle altre. La curiosità/ è ancora una salvezza, la lente/ che ci lascia vedere al di là. E poi …/fissare una nota con la punta/ di un lapis , chissà.” (Note di passaggio)

Più si leggono le poesie di Cesarina Vegni più ci si rende conto come sia alto il suo grado di consapevolezza. Sicuramente merito di un sentire che per avere questa sensibilità per forza di cose ha dovuto pagare il suo prezzo con la sofferenza. Più alto è il grado di consapevolezza e più costante e significativo diventa il rapporto con la propria sofferenza.
D’altronde chi decide di ricercare il Sé più autentico subisce inesorabilmente una lacerazione. Il semplice “io sono” indifferenziato diventando “io sono me stesso” e cioè persona specifica nettamente differenziata mette in moto inesorabilmente il meccanismo della dualità.

“L’essere – direbbe Patrick Ravignant – si accanisce tentando di diventare qualcuno e viene sospinto di identificazione in identificazione, di definizione in definizione, di progetto in progetto, di insoddisfazione in insoddisfazione. In realtà è impossibile tentare di essere qualcuno senza inevitabilmente procedere per riferimenti, paragoni, mimetismi, e senza identificarsi con un certo numero di modelli esteriori prestabiliti e stereotipati. Quantificando come estraneo  ciò che corrisponde a questi modelli, ci costruiamo da soli la cella della nostra identificazione, e in essa ci muriamo vivi.”

Non c’è dubbio che nella cella della sua identificazione Cesarina Vegni c’è vissuta a lungo. D’altronde, non avrebbe potuto evitarlo, non c’è  mai consapevolezza senza il necessario travaglio.

Ora sa che nel momento in cui l’illusione della separazione e l’angoscia dell’io e dell’altro scompaiono, in quel preciso momento, la felicità assoluta diventa lo stato stesso della sua realtà. E questo lo si capisce molto bene dalla poesia “Violetta”, con cui chiudiamo questa nostra breve nota:

Mi metto prona. Non c’è più il mio corpo, sono solo occhi, lo/ sguardo di uno gnomo nel sottobosco della mia aiuola. Sono in un/ mondo appena sopra la radice delle piante, un paesaggio minuscolo/ nascosto fra foglie secche e sassi./ Sento le zolle fredde sotto il mento, il vento passa fra gli steli, secca/ le labbra. Rabbrividisco nel sottobosco casalingo mentre cerco un/ segno di inizio o forse di ritorno./ Nel crepitare senza sosta dell’ombra e della luce, sotto il suo cuore verde, mi appare una lucida violetta.”

LIETOCOLLE
http://www.lietocolle.com/shop/collane-i-giardini-della-minerva/vegni-cesarina-note-di-passaggio/


giovedì 31 marzo 2016

Chiasmo apparente





Paolo Mazzocchini:
“Finché la ferita continua a sanguinare ci sarà Poesia”
di Bonifacio Vincenzi

Perché un uomo scrive poesie?

Me la sono posta spesso questa domanda, me la continuo a porre. Nell’universo del sapere umano pullulano infinite risposte. La più nota è sicuramente quella che dà  ne L’attimo fuggente il prof. John Keating, interpretato magnificamente dall’indimenticabile Robin Williams:

Non leggiamo e scriviamo poesie – spiega il professor Keating ai suoi studenti - perché è carino. Noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana. E la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento. Ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita.”

Questa è una risposta suggestiva alla domanda che ci siamo posti all’inizio,sicuramente da ricordare con gli amici nelle occasioni speciali anche se io preferisco la risposta che si evince dall’ultimo libro di poesie di Paolo Mazzocchini, Chiasmo apparente, edito qualche settimana fa da LietoColle:

Poesia purtroppo sarà morta/ quando finalmente per l’acume/ tenero della matita/ la sepolta e viva tua ferita avrà/ smesso di sanguinare.” (Purtroppo, finalmente).

Chi in arte ha espresso molto bene il tema della ferita è sicuramente  il pittore ed incisore norvegese Edvard Munch.  L’urlo è la massima espressione dell’angoscia dell’uomo di fronte al mistero della vita.

Camminavo lungo la strada con due amici –scrive Munch nei diari raccontando l’antefatto genetico del celebre dipinto - quando il sole tramontò. Il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto a un recinto: sul fiordo nerazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura.

Emmanuel Mounier scriveva che “occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca nella carne.”

Ed è in questo particolare sentire che Paolo Mazzochini incontra la poesia:

L’anima esiste e come./Per le anse del vaso forte/ e lungo soffiando asciuga carne/ cervello ed ossa, tenta l’uscita./ Affila le nocche delle mani, ama i pugnali/ delle vertebre contro il liso/sudario del corpo. A fuoco/vi stampa lo scheletro/ a sua effigie. Tossisce nell’aria/ la feccia secca invelenita/ dell’amore paglia/ sfiata dalle scuciture/ di un cuscino. Per i varchi/delle pupille assedia e lacera/ la diafana superstite cortina/ delle lacrime. Così gusci/d’unghie morte sfilacciano/ ragne consunte in punta/ di un calzino.” (Anima Senis).


Occorre lo squarcio perché l’anima esca e finché la ferita continua a sanguinare ci sarà spazio, attraverso la sofferenza, per un sentire che porti alla luce parte di quel mistero dell’anima che solo la Poesia riesce a rappresentare nella sua straordinaria grandezza. E il fare poesia di Mazzocchini, a mio avviso, cerca di esprimere tutto questo.

venerdì 25 marzo 2016

Erotica






La profezia di Rimbaud nella poesia di Maria Grazia Lenisa
di Bonifacio Vincenzi

Erotica di Maria Grazia Lenisa fu pubblicata per la prima volta nel 1979 da Forum/Quinta generazione nella collana “Quinta Generazione/poesia, diretta da Giampaolo Piccari e con la prefazione di Giorgio Barberi Squarotti. Tra l’altro il 1979 fu un anno ricco di pubblicazioni nell’ambito della collana diretta da Piccari. Ben 27 le raccolte di poesie pubblicate ( Enrico Rovegno, I corvi di Elia; Pier Castrale, Le rovine curiose; Sandro Gros-Pietro, La battaglia di Marostica; Oretta De Marianis, Acquario; Rudy De Cadaval, Schiavo 1933; Vincenzo Rossi, Verdi terre; Rosita Copioli, Splendida luminasolis; Antonio Salvatori, Dallo cherry alla fiamma della festa; Ferruccio Mazzariol, La Grazia figurata; Antonio Lotierzo, Moritoio marginale; Lucilla Antonia Macculi, Dal taccuino di Orfeo; Patrizia Angelini, Le epigrafe vanitose; Daniela Castelli, Apparizioni brevi di perse utopie; Giovanni Ruggiero, Ritratto vegetale; Piero Frullini, Dalla parte dell’uomo; Gabriella Chioma, L’erba sul muro; Carmelo Conti, Sabbia; Gianni Goberti, Logica del caos; Franco Cajani, Brianzolitudine; Silvio Cumpeta, Questo corpo in fuga; Giancarlo Borri, Il tempo immaginato; Norma Rossi, Con la terra; Roberto Carifi, Simulacri; Giusi Verbaro Cipollina, Traiettorie e traslazioni; Mario Benatti, Secondo Luca; Lea Canducci, Doppia uscita e, come già ricordato, Maria Grazia Lenisa, Erotica). 

Una buona annata di sicuro per la poesia quella del ’79 in casa della Forum. Per avere un’idea più chiara di quello che Piccari era capace di mettere in moto intorno alla poesia vi ricordo soltanto  alcuni nomi che hanno curato le prefazioni di questi libri appena citati: Giorgio Barberi Squarotti, Domenico Rea, Paolo Ruffilli, Ferruccio Ulivi, Gino Baratta, Stefano Lanuzza, Walter Mauro, Massimo Grillandi, Giuseppe Conte, Mario Pomilio.


Questo era capace di fare in un anno Giampaolo Piccari e non  mi stancherò mai di ripeterlo, ritengo colpevole questo silenzio che grava sulla sua assenza anche in considerazione del fatto che molti dei poeti laureati del nostro tempo sono di sicuro in debito con questa straordinaria figura del secondo novecento nel campo della Poesia e non soltanto dal punto di vista editoriale.

Per fortuna c’è LietoColle. Continuiamo a ripeterlo spesso ormai ma bisogna riconoscere a questo editore una sensibilità intelligente che in questo ambiente non voglio dire che sia inesistente ma sicuramente rara.

Prendiamo questa collana diretta per LietoColle da Anna Maria Farabbi: Una via altra di pane, vino, tavola e molto silenzio. Due sono stati i libri pubblicati, il primo, di Elia Malagò, il secondo, di Maria Grazia Lenisa. Due poetesse la cui appartenenza alla Forum è abbastanza rilevante. E questo di LietoColle e della Farabbi è di per sé un grande riconoscimento al prezioso lavoro di Piccari.

Ora torniamo al libro di Maria Grazia Lenisa. La poetessa è scomparsa nel 2009 all’età di 72 anni. Ma perché la Farabbi ha scelto di recuperare questa silloge dopo 36 anni dall’uscita? Ce lo spiega lei stessa nella presentazione del libro e della collana:

“Scelgo di riportare alla luce Erotica – scrive la Farabbi - per la sua energia eruttiva, centrifuga. Il verso igneo esplode con libertà fiera, rovesciando canoni culturali, purtroppo ancora tenacemente vivi, affermando, senza ostentazione, parità e autonomia. Lenisa canta l’identità femminile con apertura che rompe confini, in uno stile che sintetizza limpidità classica, essenzialità necessaria, nudità da retoriche e da cadute di privato o letterario sentimentalismo. L’autrice espone l’io politicamente, cominciando dalla propria individualità fino alla foce del momento collettivo, attraversando l’occhiello anarchico.”

Una scelta intelligente, secondo me, è stata quella di arricchire questa ripubblicazione di Erotica con un colloquio con Marzia Alunni, figlia della Lenisa. È una conversazione davvero interessante perché ci permette di avere un quadro più chiaro della personalità della Lenisa.

Ad un certo punto dell’intervista si chiede a Marzia Alunni di tracciare un ritratto di sua madre. E lei risponde così:

“La personalità di Maria Grazia Lenisa era un po’ al di fuori degli schemi. A tratti disarmante, nell’espressione del suo punto di vista, era tuttavia costruttiva riguardo all’impegno verso la cultura ed aveva, ad ogni buon conto, un profondo rispetto dei valori umani. 

Il suo interesse verso la tradizione letteraria si traduceva anche in una forte curiosità per l’erudizione che si proponeva di riscattare, ridandole modernità. Le trasgressioni creative si innestavano in un’idea, per converso, di piena responsabilità delle scelte personali, sobrie e mai esibite. Il tutto era vissuto in maniera piuttosto giocosa.”
Questa giocosità di cui parla la figlia della Lenisa è riscontrabile anche nella sua poesia:

“Sopra il suo grande corpo/ una farfalla/in levità di desiderio, forse/ il connubio impossibile/ di un’erba che vellichi/ le natiche del mondo./ E l’erba pesta ha il segno/ del suo corpo e l’occhio sazio/ del suo lume biondo.// Stanca l’amore, imbizzarrisce il corpo/ ché l’infinito non afferra/ a morsi.” (Estate di San Martino).

Ma, alla fine, l’ambizione più grande di Maria Grazia Lenisa, come lei stessa afferma, è quella di tentare “ di realizzare la profezia di Rimbaud, toccando la veste della poesia, fino a scioglierla.”

E leggendo questo libro non possiamo certo dire che non ci sia riuscita.


Immagini in ordine di apparizione: 1.Copertina del libro; 2. Maria Grazia Lenisa; 3. Anna Maria  Farabbi; 4. Marzia Alunni con Maria Grazia Lenisa.

lunedì 21 marzo 2016

Dialoghi con Iosif Brodskij





LietoColle pubblica i “Dialoghi con Iosif Brodskij” di Solomon Volkov
di Bonifacio Vincenzi

Iosif Aleksandrovič Brodskij era nato nel 1940 a San Pietroburgo, in Russia. Poeta, saggista, drammaturgo. Una vita intensa caratterizzata dal suo amore verso la poesia e innumerevoli difficoltà: la prigionia in Urss, la fuga negli Stati Uniti e poi, nel 1987, nove anni prima della sua prematura scomparsa, culminata con l’assegnazione del Premio Nobel.

Nel 1998 usciva per la prima volta negli Stati Uniti Dialoghi con Iosif Brodskij di Solomon Volkov. Quindici anni di conversazioni con il poeta russo tra il pubblico e il privato dove Brodskij parla della sua infanzia in una Leningrado devastata dalla guerra; parla della sua vita di poeta clandestino; parla dei poeti che sentiva più vicino: Auden, Achmatova, Frost, Cvetaeva…

Il libro di Volkov fu tradotto in molte lingue ma ci sono voluti diciassette anni affinché il libro venisse tradotto anche in Italia grazie ad un editore  come LietoColle  sempre più orientato verso la traduzione della grande poesia internazionale e di tutto ciò che la riguarda.

Solomon Volkov così scrive nella prefazione all’edizione inglese opportunamente tradotta e inserita dall’editore anche in questa edizione italiana:

Questo libro potrebbe essere una guida, una sorta di Baedeker, del territorio artistico ed esistenziale di Brodskij, un territorio spesso strabiliante, mozzafiato, a volte ―proibito. L‘idea è nata alla fine del 1978, quando, per curiosità, ho iniziato a frequentare le lezioni che lui teneva alla Columbia University di New York davanti a un pubblico di giovani americani, perlopiù aspiranti poeti. All‘epoca Brodskij, trentottenne e in esilio da più di sei anni, analizzava per gli studenti i suoi poeti preferiti, riuscendo ad affascinarli e ispirarli con grande naturalezza. Io stesso ne rimasi profondamente colpito.

Fu così che lo avvicinai quasi subito con l‘idea di realizzare una raccolta di conversazioni, una sorta di esplorazione della poesia e della cultura russa, condotta attraverso la lente della sua esperienza. Suggerii che un libro simile avrebbe avvicinato alla letteratura russa nuovi lettori, che avrebbe spalancato loro una nuova comprensione di questo mondo letterario e, con mia grande sorpresa, Brodskij acconsentì con entusiasmo. In quel momento, non sapevo ancora che si stesse preparando al suo primo intervento a cuore aperto. Aveva iniziato a rivolgersi alla morte abbastanza presto, nei suoi versi, anche se è difficile stabilire se le sue preoccupazioni in merito fossero alimentate dai suoi problemi cardiaci o dal suo immergersi nella filosofia esistenziale. In ogni caso, seppur saltuariamente, ha sempre affrontato la questione in modo diretto.”


Ma nel libro c’è molto di più. 420 pagine dove, parafrasando Oscar Wilde, noi tutti diventiamo spettatori del tempo e dell’esistenza di uno dei poeti più importanti della letteratura russa e dove l’anima, l’anima segreta, alla fine, è la sola realtà e si risveglia e rivive nelle nostre emozioni.

A seguire un brano tratto dai dialoghi dove Brodskij parla della Achmatova e di altri poeti e scrittori russi:

Volkov: Di solito si parla di lei come di un poeta appartenente alla cerchia di Anna Achmatova, che l‘ha amata e sostenuta nei momenti difficili e a cui lei deve molto. Ma dalle nostre conversazioni so che, sulla sua formazione poetica, Marina Cvetaeva ha influito molto più dell‘Achmatova, e che lei ha conosciuto le poesie di Cvetaeva prima di quelle di Achmatova. Si può dire dunque che è stata lei il ―poeta della sua giovinezza, la ―stella cometa di quel periodo. Lei parla ancora oggi della creatività di Cvetaeva con incredibile entusiasmo e con una passione che, per un ammiratore dell‘Achmatova come me, sono molto insolite. Molti dei suoi commenti su Cvetaeva, almeno per me, suonano paradossali. Ad esempio, quando parla della sua poesia, spesso la definisce calvinista. Perché?

Brodskij: Prima di tutto per l‘assoluta novità della sua sintassi, che le permette o meglio la costringe ad andare fino al limite estremo del verso. Il calvinismo in fondo è una cosa molto semplice, è una dura lotta dell‘uomo con se stesso, con la sua coscienza e la sua consapevolezza. In questo senso, tra l‘altro, anche Dostoevskij è un calvinista. Calvinista, in sostanza, è l‘uomo che esercita su se stesso una sorta di Giudizio Universale, senz‘attendere l‘arrivo dell‘Onnipotente. In questo senso, non esiste in Russia un altro poeta come lei.


Volkov: E il Puškin della Rimembranza?

E con disgusto io rileggendo la mia vita
Mi sento tremare e maledico.

Tolstoj ha sempre sottolineato l‘aspetto di cruda autocondanna di questi versi di Puškin.

Brodskij: Di solito si pensa che in Puškin ci sia tutto, si è sempre pensato così per più di settant‘anni dopo il duello. Dopo di che è arrivato il XX secolo… Ma ci sono molte cose che mancano in Puškin e non solo per il cambiamento delle epoche, della storia. In Puškin mancano molte cose, sia per una questione di temperamento, sia per un fatto di sesso; le donne sono sempre le più spietate nelle loro pretese morali. Dal loro punto di vista, da quello di Cvetaeva in par ticolare, Tolstoj semplicemente non esiste. Come fonte di giudizio su Puškin, comunque. In questo senso io sono addirittura più donna di Cvetaeva. Cosa poteva saperne il nostro conte ―millelibri di autocondanna?

Volkov: Ricorda Festino in tempo di peste? ―Si dà un‘ebbrezza nella guerra, sul ciglio del pauroso abisso IV: in questi versi di Puškin non si sente la furia delle forze elementari, l‘impeto della ribellione, come in quelli di Cvetaeva?

Brodskij: In Cvetaeva non c‘è nessuna ribellione, Cvetaeva è una radicale impostazione del problema:

La voce della verità celeste
contro la verità terrestre.

In entrambi i casi – si badi bene – dice ―verità. In Puškin questo non c‘è, soprattutto la seconda verità. La prima è evidente, ed è stata completamente usurpata dall‘ortodossia. La seconda, nel migliore dei casi, è soltanto una realtà, ma non la verità.

Volkov: Mi sorprende sentirglielo dire. Ho sempre pensato che Puškin parlasse anche di questo.

Brodskij: No, questo è un argomento enorme e sarebbe meglio non toccarlo. Cvetaeva qui parla davvero del Giudizio Universale, del ―giorno dell‘ira, che è veramente tale, non fosse altro per il fatto che tutti gli argomenti a favore della verità della terra sono già stati elencati, e in questo elenco Cvetaeva arriva fino al limite estremo, anche se sembra si lasci trasportare. Proprio come gli eroi di Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Non dimentichiamo che Puškin è un ari-stocratico. E, se vogliamo, un inglese nel suo rapporto con la realtà, un membro di un club inglese: ed è sempre discreto, in lui non c‘è angoscia, non ce l‘ha. Non c‘è neanche in Cvetaeva, ma il suo modo di fare domande à la Job, alla maniera di Giobbe, ―o questo, o niente, genera quell‘intensità che in Puškin non si trova. E i suoi puntini sopra la ―ë vanno oltre ogni connotazione musicale, ogni epoca, ogni contesto storico, ogni esperienza personale e tempera-mento. Sono lì perché lo spazio sopra le ―e deve essere riempito.


Immagini in ordine di apparizione: 1. Copertina del libro; 2. Solomon Volkov; 3. Brodskij da giovane; Marina Cvetaeva.

mercoledì 9 marzo 2016

Bataclan






Bonifacio Vincenzi ricorda i ragazzi del Bataclan



“Bataclan – si legge in una nota dell’editore LietoColle che presenta il nuovo  libro di poesie di Bonifacio Vincenzi che si intitola, appunto, Bataclan - è un nome venuto  a tatuarsi proprio malgrado nella coscienza del mondo, un mondo che rischia però – per memoria corta ed eccesso di informazione – di dimenticare in fretta i fatti e le ragioni. Bonifacio Vincenzi è qui a ricordarci – fuori dalla cronaca e dalla retorica dei coccodrilli – che una parte di noi è morta con i ragazzi del Bataclan, che una quota dei nostri giorni paga – che Bataclan resti o non resti coscientemente e consapevolmente presente nel pensiero – il debito di ciò che siamo diventati, di ciò che i morti di Parigi non hanno avuto modo di diventare.

Bonifacio ricorda senza paura di tremare, riportando le lancette dell’emozione al tempo dei corpi appesi alle finestre, delle armi inceppate che hanno graziato alcuni e delle armi che hanno cantato la morte di altri. Bonifacio ricorda storie collettive e individuali, riconducendo a verità i fatti non per ciò che sono stati, ma per quanto hanno simbolicamente rappresentato.

Con un’epigrafe che vale erga omnes: “Per loro e per tutti gli anni / che chiederanno conto al tempo  / sarà primavera in novembre”.”

Bataclan è diviso in quattro sezioni: “Un attimo prima degli spari”; “Vittime”; “Il sorriso di Marie” (questa sezione è interamente dedicata a Marie Lausch morta al Bataclan insieme al ragazzo); “L’abitudine della vita”.

E proprio dalla sezione “Il sorriso di Marie” vale la pena leggere questa poesia perché è davvero molto bella:

Chi ti cerca sono le stelle cadenti
dei tuoi desideri, chi ti cerca è la strada
dove sei passata, le canzoni che nel cuore
hai cantato. Ora vai per albe
e gocce di rugiada, sbocci con i fiori
a primavera, sanno poco di te gli anni
che ti hanno strappato ma c’è,
in questa città, come una voce di gloria
nel vagito di ogni nuova vita, parla
di te e dell’orgoglio di nascere francesi.

LietoColle