lunedì 11 aprile 2016

Bataclan


Bonifacio Vincenzi racconta, in liriche, la tragedia del Bataclan
di Marco Testi



Stavano lì
ad assaporare la vita
ignari che la normalità
fosse una colpa

La tragedia di Bruxelles richiama l’altra tragedia del novembre parigino. Poche armi rimangono agli uomini di buona volontà
per far sì che queste storie, lungi da tramutarsi solo in paura, divengano nuova linfa. L’arte, la musica, la poesia, il racconto. Così fa lo scrittore Bonifacio Vincenzi con la sua raccolta di poesie interamente dedicata ad uno dei luttuosi eventi parigini, quello accaduto durante un concerto allo storico teatro Bataclan e costato 93 giovani vite. E “Bataclan” (LietoColle, 59 pagine) s’intitola questo commosso ricordo del sacrificio di tanti ragazzi inconsapevoli che la loro storia sarebbe diventata Storia con la maiuscola, una tragica Storia che non finisce di scriversi da sola sui libri scolastici e che parla di violenza folle. Il tempo dell’uomo che si contrappone a quello dell’eternità e a quello della storia è uno degli elementi fondanti di questa raccolta che si presenta suddivisa in quattro sezioni: “Un attimo prima degli spari”, “Vittime”, “Il sorriso di Marie”, “L’abitudine della vita”. Attraverso le maglie di questa triplice dimensione del tempo, passa il dolore. 

Quando esso è vicino a noi, troppo vicino, non è dicibile. La vicinanza lo rende urticante, inarticolabile, muto. Il poeta non tenta infatti alcuna razionale spiegazione, cerca semplicemente di mettersi dentro l’evento, capire con lo spirito e non con la testa. 

Sono giorni in cui la testa da sola non può spiegare il mondo, a riprova che i meccanismi razionali non bastano di per sé a dare risposte. Un mondo che come dice una delle brevi liriche, è morto in “questa notte”. La consapevolezza dolente che una vita è irrisarcibile di per sé, e lo sprofondamento nell’enigma di ciò che sta accadendo è un’altra delle dimensioni di “Bataclan”. Sembra che l’ansia di vita dei giovani di ogni tempo lasci una impalpabile presenza collettiva e nello stesso tempo ricollegabile ad ognuno:

Di quei ragazzi rimane
l’impazienza di una giovinezza
mai scomparsa

Perché il grande motivo del tempo rimane dentro ogni verso, sposandosi con la richiesta, in questi giorni mai così sentita, di un perché.

Per loro e per tutti gli anni
che chiederanno conto al tempo 
sarà primavera in novembre.

La violenza della storia non impedisce un lento, inesorabile riaggallare della riflessione sulla nostra realtà. Ritornano i grandi interrogativi – come piantine che si fanno largo sulle fessure del cemento – sulla nostra vita, sulla sua possibilità di allargarsi a comprendere l’altro in una comunione che forse rappresenta il vero antidoto alla brutalità di quello che nel “dopo” chiamiamo storia. Fino a giungere in una visione che va oltre la dimensione di ciò che chiamiamo tempo:

Siamo ciò che la vita ci consente di essere
e abiteremo tutti nella stessa assenza, non più case 
né conti in banca, un fremito soltanto 
di anime vaganti.

Rimane fortissima la consapevolezza del rischio della poesia in questo momento: l’inutilità, la retorica. Vincenzi prende di petto questo rischio, andando a chiedere ragione ai modelli un tempo amati e che ora sembrano grondare impotenza e dolore, rivolgendosi ad esempio al grande Prévert, chiedendogli ragione dei ragazzi “che si amano”, immortalati dai
versi del francese, e che ora muoiono “nell’abbagliante splendore/ della loro libertà”. La necessità della vita, che continua in altri giovani e che è più forte e fatale della violenza, è l’altra grande componente di questo ciclo lirico. Dopo il tempo, dopo il dolore, ecco, alla fine, ciò che è inestinguibile, ciò che non potrà mai essere fermato, perché oltre l’oggi nuovi domani, e nuove vite, verranno, a portare nuove e più salde speranze:

Credono di averti uccisa
non sanno dell’altra vita
non sanno che vivi
nel sogno dei bambini

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