mercoledì 6 luglio 2016

Il mondo dopo il circo



Il recupero della memoria nel romanzo di Gregorio Marrazzo
di Bonifacio Vincenzi

Poche settimane fa è uscito il romanzo di Gregorio Marrazzo, Il mondo dopo il circo edito da Aljon Editrice, nella prestigiosa collana “Il mirto e il lentisco”. Marrazzo intrecciando  affabulazione e recupero della memoria, ha voluto rielaborare un suo vissuto cercando, attraverso i personaggi di questo romanzo, una nuova consistenza psicologica dando così a se stesso la possibilità  di immergersi nella magia di un passato mai dimenticato.

La misura nell’evocazione degli ambienti, la forza nella caratterizzazione di personaggi come Salvatore e Annuzza fanno di questo libro un’occasione importante per cogliere alcuni aspetti di una realtà meridionale mai tenera con i sogni e le speranze …

Le due donne erano sedute tra l’erbetta e i fiorellini e si rassettavano reciprocamente i capelli, la brezza li accarezzava. Parlavano di Salvatore. Annuzza raccontava a Djamila del loro fidanzamento durato sette anni, di come si conoscessero da quando erano ragazzini e di come era già tutto pronto per il matrimonio.
“Ti dispiace molto che sia andata così?”, le chiese Djamila.
Annuzza esitò un attimo prima di rispondere, poi ridendo disse di no, che non le dispiaceva. Rise anche Djamila.
“Se vuoi sapere se mi è rimasta un po’ di delusione, beh, all’inizio sì, c’è stata, quando ho saputo che si era sposato con quell’altra. Ma poi ho preso quella delusione e le ho chiesto cosa volesse da me. Forse, che non mi sposavo più con quell’uomo che è diventato una specie di demonio?Te la immagini che vita sarebbe stata? Certamente non quella che io avrei desiderato. O meglio, forse, è la vita che io adesso non desidererei. Fino a ieri non mi ponevo troppe questioni, l’importante era sposarsi perché lo fanno tutte, fare subito dei figli e crescerli, avendo cura di trasmettere loro lo stesso modo di pensare.”
“Adesso non la pensi più così?” le chiese Djamila.
“No, adesso la penso diversamente, voglio fare altro, non so ancora precisamente cosa, ma mi sto movendo in una direzione che sento essere mia, stando con voi sto imparando davvero tanto su cosa sia scegliere con la propria testa.”
I personaggi di Marrazzo rivendicano il loro diritto di vivere la propria vita. Annuzza tentando di percorrere una strada piena di insidie e di scoperte ma che sente essenzialmente sua; Salvatore, invece, vuole la vita che vogliono tutti, piena di ricchezze, potere, e tanto altro.


Marrazzo, insomma, si rivela un osservatore acuto dell’animo umano e un narratore capace di colpire il cuore e l’intelligenza del lettore.

domenica 26 giugno 2016

Telepatia





“Telepatia” di Gian Mario Villalta
Un libro che ti entra dentro
di Bonifacio Vincenzi


“A cinque anni dall'uscita dell’ultima raccolta (Vanità della mente, Premio Viareggio 2011) - racconta Gian Mario Villalta - credo di avere, se non risolto, approfondito molti dei problemi formali che mi portavo dietro da tempo. Ne risulta un libro più fruibile, che entra in dialogo con il lettore. Per me una tappa davvero importante.” 

Sta parlando chiaramente della sua nuova raccolta di poesia, Telepatia, edita recentemente da LietoColle e che in pratica inaugura la collana di poesia “Gialla Oro”, diretta da Augusto Pivanti.

Telepatia propone 19 poemetti, in circa 150 pagine di versi. Un percorso poetico che ha attraversato tre anni della sua vita, ma ne è valsa la pena, perché queste poesie sono un vero e proprio dono per tutti quei lettori che volessero riconciliarsi con una lettura poetica appagante e, per una volta, vicina al loro sentire.

Questo libro Villalta lo ha pensato e scritto per i lettori, quindi, ed  è già questa una grande novità  nel panorama della poesia italiana dove i “poeti laureati” scrivono ormai soltanto per gli addetti ai lavori. Lo fanno per meglio rientrare in quella logica scambista che mortifica, affossa sempre più la buona Poesia.


Questo suo essere dalla parte del lettore di poesia, in verità, Villalta lo sta da tempo sperimentando in qualità di direttore artistico di Pordenonelegge. Il Festival è ormai tra i più importanti d’Italia e,  presentando sempre poesia ad alti livelli, richiama di anno in  anno, un numero sempre più crescente di appassionati.

Ma torniamo al libro soffermandoci, per un attimo,  su questa poesia:

L’ho mai detto, io, ai miei,/ agli amici, agli alberi, al cielo,/ anche quando davvero potevo,/ a qualcuno ho mai detto: “Sono felice”?/ Mia figlia lo dice senza pudore,/ senza paura che qualcuno le invidi/ la felicità, senza pietà per suo padre/ che la stringe in silenzio e se dice “Anch’io”/ poi deve correggere “in questo momento”.”

I bambini, certo,  non hanno paura della felicità tantomeno della verità. I bambini sono innocenti. Loro ascoltano la pura musicalità dell’essere. Non indossano maschere sociali e non hanno ancora attraversato tutti gli sconvolgimenti dati dalla furbizia e dal calcolo che li faranno diventare adulti.

Come faceva giustamente notare Elémire Zolla in Archetipi, per gli adulti “la maschera mondana diventa la pelle del viso. Allora l’idea che essa possa esserci strappata, getta nel terrore; tutto si affronta pur di non perdere la faccia. (…)” Per poi rafforzare il tutto con questo bellissimo richiamo:


“In una composizione teatrale di Kantor gli attori reggono ciascuno un pupazzo inerte. Una delle attrici si mette a ballare un valzerino grottesco, i pupazzi cominciano a seguirla e ben presto è come se muovessero gli attori; così gli uomini si fanno trasportare dalle loro biografie.”

Gli adulti, al contrario dei bambini, non riescono a disfarsi del pupazzo che li guida, spezzando così una volta per tutte l’identificazione con la propria biografia. Questo dover essere sempre ciò che profondamente non si è, questa impotenza di fronte all’istinto di lasciarsi andare e ascoltare, per una volta senza imbarazzo, la pura musicalità dell’essere, è la causa che spinge inevitabilmente verso l’imponente esperienza del dolore.

La poesia di Gian Mario Villalta, che ho appena citato, è, a mio avviso, una delle più significative della raccolta, perché meglio fa comprendere la reclusione nella nostra prigione concettuale. Non ci sono catene o sbarre: è una prigione dalle porte e finestre spalancate. Evadere è impossibile perché non rientra nelle nostre priorità. La forza dell’emozione, alla fine, è un grande problema perché spezza la forma consueta della persona, la rende debole semplicemente perché ha così poca esperienza della felicità e così tanta del dolore.


Non mi ha sorpreso affatto, quando, nella nota finale dell’autore, Villalta, ha sentito il bisogno di reprimere quello che lui definisce una debolezza:

“Imperdonabili le poesie sui figli, lo so, quasi quanto quelle sulla madre. Però che mi vergogno lo dico già nei versi, e quindi poi mi pareva più ipocrita secretare quello che avevo con tanta sollecitudine scritto.”

Villalta ha un nome, un ruolo. Ancora Zolla: “Nome e forma descrivono le cose, ma prima viene il nome, perché riflette l’archetipo a cui esso appartiene. Quando una cosa si altera, vuole  un nuovo nome proprio, che rifletta l’archetipo diverso che ormai la regge. Sinonimo di nome è “onore”. Ciò che lega l’uomo, l’incantesimo sociale che gli è stato fatto.”

Da qui si capisce come sia inevitabile prendere le distanze per non uscire dall’incantesimo e trovarsi  faccia a faccia con se stessi.
Paradossalmente,  è più facile rinunciare alla felicità ( che così poco si conosce) che al dolore (che così tanto si conosce). La ragione ce la spiega Villalta, in questa  poesia:

Perdere il dolore/ a volte è perdere tutto. Per questo non rinuncia/ all’umiliazione di sentirsi dire che non lo vuole./ Adesso sa ancora chi è. Dopo c’è solamente, /dove dovrebbe/ ricominciare, il niente.”

Gli uomini non rinunciano alla loro biografia, non sono disposti a perdere loro stessi, per riconquistarsi. Eppure c’è in ognuno di loro questa sete di tornare a certe serate memorabili, così rare nell’intero percorso di una vita:

È una scemenza, va bene, che una giornata è bella/ perché finisce, come un fiore è bello perché sfiorisce/ e via dicendo, tutto questo mondo con noi dentro/ fatto così, è stupido dirlo, per andarsene, come una sera/ che ricorderemo: solo uno scemo spera/ di farci una poesia – lo sa chiunque./ A meno che non sveli perché è vera./O almeno, se non perché, quando succede/ che ogni cosa diventa più preziosa,/ quando il tempo quasi ti precede/ più veloce di te nell’abbandono,/ quando le cose abbandonano te, le persone,/ i sogni di quando eri giovane, senza volere abbandonarti o che tu le abbandoni.

Ricorderemo sempre, a distanza di tempo,  una serata memorabile, perché nel momento in cui la vivevi, come scrive sempre Zolla, questa volta,  in Aure, “sarebbe stato assurdo domandarsi il senso della vita, perché stava lì davanti a noi, reso sensibile in un’aura. La felicità intima è l’evocazione di questi momenti vissuti nel passato ma mai trascorsi, delineati nella luce limpida, abbagliata dell’interiorità, più vera di quella del sole.”

“Diciannove poemetti sul vivere e sul vissuto. Presenze, incontri, dialoghi, intuizioni, riflessioni catturate nell’arco degli anni, sospese fra la parola poetica e il battito dei pochi istanti in cui sono affiorate. “ In questa definizione si è voluto collocare, al momento del lancio, Telepatia, ma il libro va ben oltre, il libro ti entra dentro, vive con te attraverso i lavori dello sguardo. Il libro fa bene alla poesia, si riconcilia con il lettore, si offre come specchio per la nostra anima.


Prima di avviarmi alla conclusione, mi piace ricordare il poemetto  in dialetto veneto periferico Tra mi e ti – con Andrea Zanzotto due anni dopo.
“La traduzione – spiega Villalta in nota – è solo per chi non accede assolutamente ai versi in dialetto. E per questo è pensata in una sua autonomia lessicale e semantica, pur rimanendo una traduzione.”

“(…) Sol che tra mi e ti, in te un parlar che l’à la dh e la th,/ come i nostri veci( drento ‘sta nova/ comunion- distanzha, diventadhi i stessi veci),/ co’ quela zh che là ne à portà/ a parlar a strazhabaloò, a strazhamarcà, co’l dialeto/ e cò l’italian, par ore e ore par très de le parole/ de tute le lingue de la poesia. (…)” (Solo tra me e te, in una lingua con la dh e con la th,/ come i nostri vecchi ( ora, in questa diversa/ comunione – distanza, diventati gli stessi vecchi)/ con quella zh che ci ha portati/ a parlare a più non posso, (gratis – quasi – in quantità) con il dialetto/ e con l’italiano, per ore e ore attraverso le parole/ di tutte le lingue della poesia. (…)

Un omaggio al mai dimenticato maestro e alla sua casa, un modo per guardare, ancora una volta, il grande spettacolo della natura, da quella finestra nuova che Zanzotto era riuscito a realizzare nella vecchia casa di suo padre che, tra l’altro,  era un buon pittore di paesaggi ed era capace di far apparire miracolosamente sulla tela quello che  gli occhi del grande poeta vedevano davanti a lui. Quella finestra, “purezza inestinguibile”, per un unico sguardo di poeta, che rimanga lì “ dentro la mare de un temp robà al passà,/ robà al present, un temp fora dal temp.


Immagini in ordine di apparizione: 1. Copertina del libro; 2. Prdenone legge (panoramica sul pubblico); 3.  Elémire Zolla; 4. Gian Mario Villalta; 5. Andrea Zanzotto.

domenica 19 giugno 2016

L'inciampo





Daniela Pericone:
nell’oscuro intervallo, la poesia
di Bonifacio Vincenzi


Io sono la pausa fra due note che formano un vero accordo;
cosa affatto rara,
perché la nota della morte tende a dominare:
Ma le due si riconciliano nell’oscuro intervallo, tremanti;
e la canzone resta immacolata.

Rainer Maria Rilke ovvero quando la poesia raggiunge le alte vette. Per questo inizio, per questo nuovo viaggio nel cuore di una donna e della sua poesia: Daniela Pericone.
Nel suo ultimo libro, L’inciampo (Premio Francesco Graziano 2016), pubblicato da L’Arcolaio, la parola, racchiusa nel proprio stupore, nell’oscuro intervallo si muove, si interroga, tende ad aprirsi e chiudersi in uno spazio che abbaglia per poi ritirarsi nella profondità:

l’ultima nota ancora smuove
un’aria immota greve di quiete
di presentita veniente non vita

il fine ultimo non è che la fine
dardo inarcato sin dagli esordi
verso l’istante che rabbuia

a ogni seme di nuova arsura
quanto serrare forte di pugni
quanto implorare selve di fiati

nudo sull’osso lo sguardo
senza velami né terrori
solo un adagio e scivoli fuori

Il linguaggio del pensiero, del cuore, dell’ansia, del canto poetico verso un’unica direzione, nell’oscuro intervallo, turbati soltanto dall’irruenza dei ricordi, una distrazione, un inciampo, per l’erranza.


Daniela Pericone con la sua saggezza dagli occhi pieni di lacrime, citando un verso di René Char, chiede alla poesia quella verità che non si può e non si deve accettare, la chiede, pur sapendo che la vita ha le sue regole, i suoi segreti ed è intollerante alla sentenziosità e all’ inconoscibile e, spesso, completamente assente:

(…) la vita è altrove – ma non sul piano
lungo e malioso dell’orizzonte
la vita è dentro – giù nel fondale
di spesse nubi d’un volo che tace (…)

Altre parole non servono, ultima a parlare sia, ancora, la Poesia:

Dentro
bisogna entrare dentro
affondare il volto dentro l’acqua
non è come dicono
che si deve spingere e lottare e sbracciare
per restare a galla
piuttosto scivolare per sopravvivere
assaggiare l’abisso
guardarlo a occhi salati e spalancati
sentire che si muove d’inedia
in superficie che andare verso il fondo

è risalire

venerdì 17 giugno 2016

Il buio e la luce









“Il buio e la luce” ,
il nuovo libro di Marco Nicastro
di Bonifacio Vincenzi

Si ha più ansia di vivere o di morire?”… “Cosa potrò mai chiarirti sulla certezza del sapere?” … “Sentire nell’inerzia o vivere agendo?”…” e questa gioia dimmi, da dove proviene?”…

Queste sono solo alcune delle domande che Marco Nicastro si pone nella sua ultima raccolta di poesia  Il buio e la luce (Aljon Editrice, 2016).

La nobiltà della domanda, dunque, una luce che taglia l’oscurità e poi scompare. Una luce, però,  accolta dalla parola poetica, ancora più viva perché avvolta dal suo eterno mistero.

“Ci si interroga nella notte; – scrive Jabès – ma la domanda, mossa da un comprensibile bisogno di vedere per noi, di vederci in lei – è sempre voltata verso la luce.

La luce della domanda è sempre domanda alla luce.

Una candela accesa basta a delimitare lo spazio dei nostri pensieri, dei nostri gesti, dei nostri scritti.

Amara è la delusione di non poter varcare le frontiere del chiarore.

Scrivere non sarebbe, allora, che proiettare un po’ di luce attorno alle parole.”

È quello che fa Marco Nicastro. E lo fa sorprendendo il tempo nell’atto di passare. Lui sa che non si può trattenere nulla. Tutto passa e lentamente scompare. Forse mai definitivamente. Rimarrà tutto sospeso tra il buio dell’oblio e la luce del ricordo.

“Perché esisteva il tempo? – è la domanda che si pone il protagonista del romanzo di Hermann Hesse, L’ultima estate di Klingsor  – Perché sempre e soltanto questo succedersi delle cose e mai la travolgente sazietà dell’unisono? (…) Un uomo poteva godere per l’intera sua breve esistenza, poteva creare, ma era pur sempre costretto a cantare una canzone dopo l’altra e mai risuonava la piena sinfonia con le sue cento voci, a un tempo, e i suoi strumenti.”

Gli incontri, i ricordi, l’amore, la bellezza, la gioia, i dubbi per Nicastro diventano le cifre poetiche di un vivere che non riesce a districarsi dall’incalzare di una domanda che di sicuro non troverà una verità definitiva nella risposta.

Inevitabile, poi,  cercare rifugio nella Poesia:

Lento appare un assembramento/ d’immagini sospese;/ non c’è modo di districarne la forma./ Ciò che vorrei sapere è se l’emblema/ brilli realmente o si eclissi/ in una miseria d’intenti.//Parlami vita,/ ch’io possa essere te/ in un unico abbraccio danzante.”


lunedì 13 giugno 2016

Premio Francesco Graziano 2016




DANIELA PERICONE E BONIFACIO VINCENZI VINCONO IL PREMIO LETTERARIO “FRANCESCO GRAZIANO” 2016

La giuria presieduta da Annalisa Saccà,  docente di letteratura italiana presso la St. John’s University di New York, e composta da: Luigina Guarasci, direttore de ilfilorosso di Cosenza,   Vincenzo Ferraro, dirigente scolastico e critico letterario di Cosenza,  Salvatore Jemma, poeta e saggista di Bologna, Maria Lenti, poeta e saggista di Urbino, Giuseppe Sassano, docente e promotore culturale di Cosenza, Mariangela Chiarello, segretario del premio di Cosenza ha deciso di premiare:

Sezione A – POESIA EDITA:
Primo premio ex aequo:
-       Daniela Pericone (Reggio Calabria): L’inciampo (L’arcolaio);
-       Bonifacio Vincenzi (Cosenza)Bataclan (LietoColle).

Secondo premio:
-       maria luisa daniele Toffanin (Padova): Florilegi femminili controvento (Il Convivio);

Terzo premio:
-       Adelio Fusè (Milano)La veglia del sonnambulo (Book Editore).

Menzione Speciale - Poesia Edita:
-       Alberto Accorsi (Milano): Odì (Cfr Edizioni)
-       Angela Caccia: Il tocco Abarico del dubbio (Fara editore)
-       Grazia Di LisioUn asciugar di tempo ( Noumbs)
-       Teresa Marsico (Rogliano): Pur se durevoli un giorno (Aletti)
-       Giovanna Melchionda (Civitavecchia):Il mito della vita (Ibiskos)
 La cerimonia di premiazione del concorso di poesia dedicato a Francesco Graziano si terrà sabato 18 giugno presso il museo di Arte sacra di Rogliano, alle 17:30.


mercoledì 25 maggio 2016

Quell'estate dei giovani


Silvio Bordoni e il  manoscritto ritrovato in cantina
di Bonifacio Vincenzi

Jabès:

“Vi è un’invisibilità che è visibilità differita e una visibilità che è illeggibilità scoraggiante. Questa illeggibilità ci conferma che tutto il visibile non è, per ciò stesso, leggibile, ma che, al contrario, l’invisibile resta la futura scommessa di ogni leggibilità.”

Kundera:

“L’oblio ci riconduce al presente, pur coniugandosi in tutti i tempi: al futuro, per vivere il cominciamento; al presente, per vivere l’istante; al passato, per vivere il ritorno; in ogni caso, per non ripetere. Occorre dimenticare per rimanere presenti, dimenticare per non morire, dimenticare per restare fedeli.”

E da qui provare a immaginare che ci sia una memoria come traccia di un accaduto che si è sottratto alla coscienza, che si è concesso all’oblio. La domanda da porsi è perché dovrebbe succedere questo ma sarebbe, comunque, un esercizio inutile.
Non sappiamo chi siamo e, pare, nel modo come sprechiamo la nostra vita, non ci sia in noi alcun desiderio di approfondimento. Si susseguono i giorni e con i giorni gli anni. Dimentichiamo una quantità impressionante di cose. Ed è questo oblio che ci permettere di rinascere ogni giorno.

Qualche settimana fa LietoColle ha pubblicato il romanzo di Silvio Bordoni, Quell’estate dei giovani – La fabbrica. Lo stesso autore definisce la storia di questo manoscritto alquanto bizzarra.

Il romanzo, scritto nel 1973, si è sottratto per anni alla coscienza dell’autore per poi essere ritrovato dalla moglie di  Bordoni nel 2013, casualmente, in una cantina.

Avvolta nel suo oblio questa storia era scomparsa. Poteva anche non riapparire più. Un uomo, alla fine, - per dirla con Borges – si confonde, gradatamente, con la forma del suo destino; un uomo è, alla  lunga ciò che lo determina.

Ma tutto questo non è accaduto: il manoscritto non solo è stato ritrovato ma, cosa per niente scontata, è riuscito a vincere anche la diffidenza dell’autore che, senza imbarazzo, riconosce questa parte del suo passato ancora degna del suo presente.


Così scrive Bordoni in una nota:

“Dopo qualche mese decisi di metterci mano, se non altro per un senso di rispetto. Dopo le prime pagine tutto o quasi mi balzò alla mente. Si trattava di una vicenda reale che riguardava loccupazione di una fabbrica di calze – iniziata nellestate del 1973 – a seguito del licenziamento improvviso di un gran numero di operai e operaie, disposto dai padroni che da quel momento non si erano più fatti sentire né vedere. Una vicenda, quindi, da definirsi – oggi come oggi – assolutamente attuale e che si svolgeva allora in un paese della medio - bassa bergamasca.”

Da qui la decisione di pubblicarlo.

“Il libro – scrive Gabrio Vitali  nell’introduzione -  si intitola Quell’estate dei giovani, e giovani, o ancora giovani, sono infatti molti personaggi, soprattutto gli studenti e gli operai che s’incontrano di continuo nelle sue pagine; ma l’estate, quella è colta nel suo finire, non nella sua esuberanza; ed è, invece, l’autunno col suo raccoglimento e la sua malinconia, con il suo andarsene dei colori e dei vigori, che entra sempre più nel racconto e ne costituisce la cifra e, insieme, la piega mentale da cui leggerlo. Come nell’apprendistato di Maurizio, attento e curioso, che cresce nella coscienza civile e si apre all’amore, per poi doversi ripiegare nelle maglie sempre più soffocanti di un male cattivo. 
Come nell’illusione di Rosanna, coraggiosa ragazza madre, che spera per un attimo nel ritorno del padre della sua bambina. Come nella pacata e precoce saggezza di Andrea, leader naturale della lotta, che deve gestire l’epilogo della disillusione di tutti. Come nell’impegno responsabile del giovane sindaco, che è costretto a stemperare la sua passione civile fra i vincoli della politica politicante del suo partito. Come nella sorte sconsolata di Maria, che pare risucchiata nello sciacallaggio di chi vuole speculare sulla sua bellezza e sulla sua disoccupazione. Come, infine, nel destino di Nannina e Dario, allacciati prima nel volo di un valzer rubato in un bar, al suono d’un juke box, e subito dopo spariti nel fragore metallico di un incidente stradale.”

Un romanzo intenso, questo di Bordoni,  pervaso delle atmosfere tipiche degli anni ’70  e che ha il pregio di avere una notevole forza espressiva capace di affascinare il lettore.

Immagini in ordine di apparizione: 1. Copertina del libro; 2. Silvio Bordoni; 3. Gabrio Vitali

LietoColle

http://www.lietocolle.com/shop/collane-collana-rossa/bordoni-silvio-quellestate-dei-giovani/

lunedì 23 maggio 2016

Oltre la curva del tramonto




La traccia dell’immortalità nella poesia di Aurora Cantini
di Bonifacio Vincenzi

“Il ritorno alla vitalità naturale – affermava qualche anno fa Andrea Zanzotto  quando ancora abitava la vita – si verifica soltanto quando si arriva al punto di cingersi intorno il paesaggio come se fosse un mantello che ci avvolge e ci aiuta a voltare le spalle a un passato negativo. È un’immagine di derivazione surrealista, ma ancora adesso inseguo il tentativo di portarmi addosso il paesaggio come se fosse un mantello leggerissimo, di fate, in realtà. Se riesco a intonarmi al paesaggio facendolo mio, vuol dire che la strada è positiva, che riesco a raggiungere uno sguardo libero verso il mondo.”


Certamente Aurora Cantini nella sua raccolta di poesia Oltre la curva del tramonto, pubblicata da LietoColle, riesce a raggiungerlo questo sguardo libero verso il mondo e lo fa  avvalendosi dell’intensità e della piacevolezza della Poesia:

I bambini del mondo sono come stelle,/ Si accendono ad uno ad uno,/ Ma a volte diventano buchi neri,/ Senza voce né sorriso.// I bambini del mondo sono come un biscotto,/ Solo briciole nelle mani dei grandi.// Ninna nanna per ogni bambino:/ Come dono un pezzo di cielo turchino,/ Una nuvola soffice e leggera,/ Un petalo di rosa rossa,/ Un velo verde sul prato,/ Una castagna dolce e marrone,/ Un sole giallo sul cuore,/ Un angelo bianco vicino,/ Un lettino con sopra un cuscino,/ Una lacrima da asciugare al mattino,/ Un abbraccio che scalda l’inverno.// Ninna nanna, bambini del mondo,/ sorrisi e giochi nel vento,/ Niente buio per i piccolini,/ Solo sogni azzurri e notti d’argento.// Sia ninna nanna portata col canto/ Per riscaldare mani e braccia che si levano in alto,/ A formare un cerchio sul filo del mondo.// Sssh! Dormono i bambini del mondo.” (Ninna nanna per i bambini del mondo)

Aurora Cantini insegue la pista di una visione fortemente legata ad uno sguardo carico di tutta la sua sensibilità di donna  e di essere umano. Leggendo questo brano tratto dall’introduzione della Cantini al suo libro la sua sensibilità traspare ancora più chiaramente:

“Sono legata alla mia terra di montagna come una radice sospesa, la sento vibrare in me in ogni respiro di vento, in ogni scricchiolare di foglia, in ogni sentiero nascosto.
Ho ascoltato le poesie degli alberi frondosi che muovendosi nel dolce tramonto estivo cullavano i miei sogni bambini, o quando, carichi di neve, svettavano al cielo e mi portavano fin lassù, nell’azzurro, con le loro lunghe dita di diamanti. Mi raccontavano, mi consolavano, mi inebriavano di vita, mi amavano teneramente, silenziosamente e per sempre, portandomi oltre la curva del tramonto, fino a raggiungere le stelle.”

La vicinanza a quell’espressione tanto cara a Zanzotto “ di cingersi intorno il paesaggio come se fosse un mantello” non può certo negarsi, cambia solo il modo di esprimerla. Da una parte la grandezza della poesia zanzottiana viva in un linguaggio indagatore molto attento all’essenzialità; dall’altra la poesia della Cantini impegnata nella ricerca di una dimensione ideale e che non riesce ancora a contenere una partecipazione straripante che di sicuro evita, senza rimpianti,  il rapporto definitivo con un velato distacco.

Il percorso del libro della Cantini, alla fine, è una ricognizione in un Luogo/rifugio dove le emozioni di dentro e quelle di fuori, fanno i conti con un’esistenza spesso incapace di cogliere dal Bello quella traccia di immortalità che farebbe tanto bene all’Anima.

Immagini in ordine di apparizione: 1. Copertina del libro; 2. Andrea Zanzotto; 3. Aurora Cantini

LietoColle

http://www.lietocolle.com/shop/collane-collana-blu/cantini-aurora-oltre-la-curva-del-tramonto/