sabato 27 giugno 2015

LE BAMBINE DI CARROLL








IL MISTERO DELLA VITA E DELLA MORTE NELLA POESIA DI BONIFACIO VINCENZI
di Lucia Gaddo Zanovello


Nella nuova opera poetica di Bonifacio Vincenzi, Le bambine di Carroll (LietoColle 2015), sono numerosi i versi che trovo memorabili. Questo perché essi sono suggestivi di riflessioni utili a soffermarsi ancora una volta sulle questioni fondamentali dei processi d’identificazione e di riconoscimento di sé e degli altri, sul fine ultimo dell’esistere e sulle inquietanti domande da porre al mistero della vita e della morte.
È proprio il testo di apertura ad apparire quasi programmatico: “Nessuno sceglie la salita”, già questo titolo dichiara lo sforzo immane ma necessario, richiesto a ciascuno per esistere, e nel secondo testo: “Credimi quando ti parlo”, ove si dice  “il primo pianto nel mondo/ non lo dimentica nessuno”, vi è tutto il dramma della solitudine e dell’isolamento traumatico che vive il neo-nato all’umanità.
Nella raccolta ricorre più volte, insieme a quello dell’apparenza, il tema dell’assenza, “Siamo qui nel tuo sangue,/ gridano gli assenti” (“Nei secoli dei secoli”, p. 34), ma questi ‘diversi’ assenti, così ‘vivacemente’ operosi, io credo di individuarli in coloro i quali ci hanno preceduto, essi sono dunque al contrario, presenti, per il fatto che li portiamo con noi nel nostro DNA e nel nostro sangue, anzi essi si trovano addirittura ‘a gridare’ in noi la loro presenza, perché desiderosi di proseguire, attraverso noi, con la stessa passione che li aveva animati o con quella che non avevano saputo o potuto esprimere durante la loro esistenza, sulla strada dell’amore.
Per esistere in autentica presenza dobbiamo mantenere la guardia, avverte infatti B. Vincenzi  in “Nei secoli dei secoli” e in “Pane di sole”, dato che il nostro procedere tende a farsi troppo spesso, per pigrizia, stanchezza o per insensibilità, “un camminare di assenti”.
Nel precipizio della vita e per essa, afferma il Poeta, “Siamo la corsa che ci rende/ ciechi” e nella corsa poi “chi distingue più/ il durevole dal passeggero”, talora è difficile riconoscere il vero dal falso, vedere con chiarezza ciò che è realmente importante, ma è in questa asserzione: “lo chiedo a te che sei me”, che si legge nella prima poesia e in questo passaggio della seconda (“Credimi quando ti parlo”): “lasciami essere ciò che non vuoi che sia”, che vengono offerte al lettore, per l’appunto, indimenticabili meraviglie, in sintesi, lucide perle da conservare nel cassetto delle necessità.
Il trasporto emotivo verso l’altro e verso il mondo, si comprende,  è l’unica via di accesso possibile per la nostra presenza reale, l’unico varco al muro della solitudine, rimedio all’egoistica retrocessione di sé, unico contrasto alla morte e suo contravveleno.
Il nostro processo di riconoscimento inizia solo quando ci riconosciamo nell’altro e nella nostra appartenenza al mondo, “attenti alle bambine di Carrol/: Portano sempre/ di là dello specchio” (p. 21), avverte l’Autore con una messa in guardia che in realtà è un invito.
Lo specchio dà di noi un’immagine falsata, e si legge ancora in “Pane di sole”, “lo spettacolo di sé/ rimane in sospeso”.
Se mi fermo a guardarmi, in altre parole, non imparo nulla di me, anzi, c’è forte il rischio che il rimando narcisistico congeli il mio evolvere; davanti allo specchio osservo un’immagine solitaria e priva di spessore. Capita di frequente che chi non ci vede da tempo stenti a riconoscerci, se a noi a volte questo dispiace, è perché sentiamo forte che in realtà siamo fatti dello spirito eterno che ci caratterizza e che rimane in sé di una intatta freschezza immutabile, è soltanto la nostra transitoria corporeità a trasformarsi di continuo, nelle età e per gli eventi che incontra.
L’identità è un processo di consapevolezza di sé che sta al di là delle apparenze, che mette l’anima in continuo e profondo mutamento solo in rapporto ai propri simili, anzi, soprattutto in rapporto ai propri dissimili.
Per questo sarebbe un errore ‘fidarsi’ delle immagini riflesse dagli specchi ed è necessario invece fare il balzo di Alice per stabilire delle relazioni. Si deve fare il contrario di ciò che appare ragionevole perché l’apparenza è ingannevole, bisogna andare oltre, verso l’altro, che è la salvezza della nostra identità, come noi lo siamo della sua, e lo si deve fare senza paura.
Proprio perché “Ha leggi feroci il tempo/ e noi andiamo, incatenati/ alla nostra assenza” (p.36), sostiene Bonifacio Vincenzi, tornando sul tema sopra ricordato del pericolo di passare dal mondo da assenti, la partecipazione emotiva e l’amore sono l’unico modo per essere liberi e presenti al mondo e per rendere liberi e presenti gli altri e solo uno specchio che rifletta un interiore me migliore è quello che riflette anche un mondo più accettabile.

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