IL MISTERO DELLA VITA E DELLA MORTE NELLA POESIA DI BONIFACIO VINCENZI
di Lucia Gaddo Zanovello
Nella nuova opera poetica di Bonifacio
Vincenzi, Le bambine di Carroll (LietoColle 2015), sono numerosi i versi
che trovo memorabili. Questo perché essi sono suggestivi di riflessioni utili a
soffermarsi ancora una volta sulle questioni fondamentali dei processi
d’identificazione e di riconoscimento di sé e degli altri, sul fine ultimo
dell’esistere e sulle inquietanti domande da porre al mistero della vita e
della morte.
È proprio il testo di apertura ad apparire
quasi programmatico: “Nessuno sceglie la salita”, già questo titolo dichiara lo
sforzo immane ma necessario, richiesto a ciascuno per esistere, e nel secondo
testo: “Credimi quando ti parlo”, ove si dice
“il primo pianto nel mondo/ non lo dimentica nessuno”, vi è tutto il
dramma della solitudine e dell’isolamento traumatico che vive il neo-nato
all’umanità.
Nella raccolta ricorre più volte, insieme a
quello dell’apparenza, il tema dell’assenza, “Siamo qui nel tuo sangue,/
gridano gli assenti” (“Nei secoli dei secoli”, p. 34), ma questi ‘diversi’ assenti,
così ‘vivacemente’ operosi, io credo di individuarli in coloro i quali ci hanno
preceduto, essi sono dunque al contrario, presenti, per il fatto che li
portiamo con noi nel nostro DNA e nel nostro sangue, anzi essi si trovano
addirittura ‘a gridare’ in noi la loro presenza, perché desiderosi di
proseguire, attraverso noi, con la stessa passione che li aveva animati o con
quella che non avevano saputo o potuto esprimere durante la loro esistenza,
sulla strada dell’amore.
Per esistere in autentica presenza dobbiamo
mantenere la guardia, avverte infatti B. Vincenzi in “Nei secoli dei secoli” e in “Pane di
sole”, dato che il nostro procedere tende a farsi troppo spesso, per pigrizia,
stanchezza o per insensibilità, “un camminare di assenti”.
Nel precipizio della vita e per essa, afferma
il Poeta, “Siamo la corsa che ci rende/ ciechi” e nella corsa poi “chi
distingue più/ il durevole dal passeggero”, talora è difficile riconoscere il
vero dal falso, vedere con chiarezza ciò che è realmente importante, ma è in
questa asserzione: “lo chiedo a te che sei me”, che si legge nella prima poesia
e in questo passaggio della seconda (“Credimi quando ti parlo”): “lasciami
essere ciò che non vuoi che sia”, che vengono offerte al lettore, per
l’appunto, indimenticabili meraviglie, in sintesi, lucide perle da conservare
nel cassetto delle necessità.
Il trasporto emotivo verso l’altro e verso il
mondo, si comprende, è l’unica via di
accesso possibile per la nostra presenza reale, l’unico varco al muro della
solitudine, rimedio all’egoistica retrocessione di sé, unico contrasto alla
morte e suo contravveleno.
Il nostro processo di riconoscimento inizia
solo quando ci riconosciamo nell’altro e nella nostra appartenenza al mondo,
“attenti alle bambine di Carrol/: Portano sempre/ di là dello specchio” (p.
21), avverte l’Autore con una messa in guardia che in realtà è un invito.
Lo specchio dà di noi un’immagine falsata, e
si legge ancora in “Pane di sole”, “lo spettacolo di sé/ rimane in sospeso”.
Se mi fermo a guardarmi, in altre parole, non
imparo nulla di me, anzi, c’è forte il rischio che il rimando narcisistico
congeli il mio evolvere; davanti allo specchio osservo un’immagine solitaria e
priva di spessore. Capita di frequente che chi non ci vede da tempo stenti a
riconoscerci, se a noi a volte questo dispiace, è perché sentiamo forte che in
realtà siamo fatti dello spirito eterno che ci caratterizza e che rimane in sé
di una intatta freschezza immutabile, è soltanto la nostra transitoria
corporeità a trasformarsi di continuo, nelle età e per gli eventi che incontra.
L’identità è un processo di consapevolezza di
sé che sta al di là delle apparenze, che mette l’anima in continuo e profondo
mutamento solo in rapporto ai propri simili, anzi, soprattutto in rapporto ai
propri dissimili.
Per questo sarebbe un errore ‘fidarsi’ delle
immagini riflesse dagli specchi ed è necessario invece fare il balzo di Alice
per stabilire delle relazioni. Si deve fare il contrario di ciò che appare
ragionevole perché l’apparenza è ingannevole, bisogna andare oltre, verso
l’altro, che è la salvezza della nostra identità, come noi lo siamo della sua,
e lo si deve fare senza paura.
Proprio perché “Ha leggi feroci il tempo/ e
noi andiamo, incatenati/ alla nostra assenza” (p.36), sostiene Bonifacio Vincenzi,
tornando sul tema sopra ricordato del pericolo di passare dal mondo da assenti,
la partecipazione emotiva e l’amore sono l’unico modo per essere liberi e
presenti al mondo e per rendere liberi e presenti gli altri e solo uno specchio
che rifletta un interiore me migliore è quello che riflette anche un mondo più
accettabile.
Nessun commento:
Posta un commento