sabato 9 febbraio 2019

Come un bruco assetato di cielo







Marco Baiotto:
“Come un bruco assetato di cielo”
di Bonifacio Vincenzi

Jabès:”Solo sui nostri occhi, sulla nostra intelligenza possiamo contare, per tentare di cogliere ciò che lo scritto contiene; solo attraverso i limiti insopportabili di una parola letta possiamo accostare l’infinito di una parola da leggere. Sicché è sempre una parola impossibile che urtiamo; e a cui sacrifichiamo la nostra.”

In questo sacrificio ciò che viene è qualcosa che ci riguarda fino in fondo, una luce che illumina la strada che non è mai nostra ma che poi la diventa; e si va avanti nel libro. Per cercare cosa? Il nostro cielo? Le nostre piccole malinconie irrisolte? O semplicemente il nulla che a un certo punto emerge carico di un mondo, sì, quel mondo, così simile al nostro. Magia della Poesia. Magia del libro.

Già, il libro. Sulla copertina, fra il titolo e il nome della casa editrice, il nome dell’autore: Marco Baiotto. In questi casi è consuetudine citare il nome della casa editrice, la Macabor, e il titolo del libro: Come un bruco assetato di cielo.

“Un titolo – scriveva Derrida – è sempre un’economia in attesa della sua determinazione, della sua precisione, della sua Bestimmtheit, quello che esso determina e quella che la determina.”
C’è da dire, però, che l’energia oscure che gravitano in questo libro di poesie di Baiotto sono misteriose e importanti. La loro presenza enigmatica stimola la nostra curiosità:

“Anime in calici/ stillavano in gocce di sangue bianco/  dall’albero della gomma divina/ per soffrire alla luce di Soli dispersi.// Ogni goccia nel calice suo/ di cristallo gommoso caldo,/ con unghie immaginarie/sulle pareti interne del corpo,/ s’inerpicava/ come bruco assetato di cielo,/ dall’interno del tronco cavo di castagno/ imprecando occhi sul mondo,/ per spiccare voli di farfalla."

La materia oscura della poesia, come quella dell’Universo, si dispone (in questo caso sulla pagina) in modo disomogenea. Dal cumulo dei giorni di una vita viene fuori un mondo che attraverso un lungo, paziente, silenzioso avvicinarsi, alla fine riempie la parola e subito dopo è stupefacente come un semplice sguardo riesca a cogliere (e lo diremo parafrasando Blanchot) non il tutto, “ma ciò che è già prima di «tutto», l’immediato ed il lontano, ciò che è più reale di ogni cosa reale e che si dimentica in ogni cosa, il legame che non si può legare e attraverso cui tutto, il tutto, si lega.”
Nella poesia di Baiotto gli indizi si dispongono nei versi e il senso più evidente si concede alla facoltà di vedere e sentire altro, una sorta di dubbiosa verità a brandelli:

(…) Ricordavo qualcosa…/Forse quando tolsi le rotelle dalla bicicletta/e rovinosamente caddi conoscendo l’asfalto,/o forse quando con un luccio allo stagno/lottai fiero dei miei dieci anni/ in un indimenticabile inverno,/ o forse ancora/quando sostenni l’esame di terza media,/ tremante candido fuscello,/promettente anticamera/ d’un solido uomo.// Ricordavo qualcosa…/Forse le mie giornate al campetto/ quando l’estate sembrava un unico/interminabile correre a perdifiato/fino a notte fonda,/e il crollo sempre avveniva/sul mio piccolo ottundente guanciale.// Ricordavo qualcosa…/ Quando imprecando in dialetto inseguii/con un bastone un ragazzo più grande:/che folle, dopo avergliele date/ ed esser fuggito indenne,/ l’aver ridisceso, per onore, le scale,/ per prenderle da lui e dai suoi amici!// Ricordavo qualcosa…/ Forse le giornate in torrente/ a viver la poesia dell’acqua e delle trote/che scorrono fluttuando nel tempo della natura,/ lasciandomi esondante di stupore,/muto testimone,/con i ricordi nel carniere/a far da unico salvacondotto/ad una altrimenti inevitabile,/stridente odierna follia.//Ricordavo qualcosa…/Ch’era così bello da sembrare un quadro,/e di quel quadro il profumo riporto/cancellandone le ombre dalla memoria,/ancora in me fresco di pittura.//Fintanto cheogni cellula di gelatina/ammorbata da arteriosclerosi inclemente/ non invaderà il mio giardino,/ghiacciandone i fiori/in graffiti di quarzo/sulle pareti della mia vuota caverna/ rilucente di muti cristalli.

Questo filo che porge Baiotto non cerca vie d’uscita, è un passare tra realtà e racconto della realtà, un transitare, insomma, tra gli strati di una vita dove lo stupore è ancora intatto negli occhi di un ragazzo che è rimasto lì a vivere per sempre la poesia dell’acqua e delle trote.

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